La Sinistra a Valenza (parte quinta)
Un nuovo capitolo della "saga" a cura del professor Maggiora
VALENZA – Verso la fine degli anni Settanta, il panorama politico italiano era in fermento, e le ripercussioni si avvertivano distintamente anche a livello locale. In molte città, l’alleanza storica tra il PCI (Partito Comunista Italiano) e il PSI (Partito Socialista Italiano), un sodalizio che per decenni aveva rappresentato la spina dorsale dell’amministrazione comunale e la garanzia di una certa stabilità politica, si trovava a un bivio cruciale. Nello specifico contesto di Valenza, dove i due partiti avevano esercitato un’influenza predominante e condiviso le responsabilità di governo per un periodo considerevole, la corda si era ormai spezzata.
Non si trattava di un semplice dissidio passeggero. Animosità profonde e risentimenti radicati si erano accumulati nel corso degli anni, strato dopo strato, come sedimenti corrosivi che avevano irrimediabilmente eroso la fiducia reciproca. Le divergenze programmatiche, le lotte di potere latenti e, a volte, anche le ambizioni personali dei singoli, avevano contribuito a frantumare gli equilibri politici della sinistra valenzana che un tempo apparivano inamovibili.
Quella che era stata una collaborazione proficua si era quasi trasformata in una convivenza forzata, caratterizzata da sospetti e diffidenza reciproca. La frattura, purtroppo, non si limitava alle stanze del potere, alle austere sale del «Palazzo Pellizzari», dove si decidevano le sorti della città, la crepa si insinuava, silenziosa ma profonda, anche nella mentalità di alcuni amministratori, permeando il tessuto decisionale e generando una profonda crisi interna che andava ben oltre le dinamiche di partito. Si avvertiva una stanchezza, una difficoltà a innovare, un’adesione a schemi consolidati che mal si conciliava con le nuove esigenze della società locale.
All’interno del PCI valenzano, questa tensione era particolarmente palpabile. Alcuni dirigenti locali, figure emergenti e cariche di entusiasmo, erano profondamente infatuati della cosiddetta «mitologia berlingueriana». Questo termine non indicava una semplice ammirazione, ma una vera e propria adesione agli ideali, alla visione e al rigore morale di Enrico Berlinguer, il carismatico segretario nazionale del PCI che, con il suo «compromesso storico» – proposta politica formulata da Berlinguer nel 1973, che mirava a un’alleanza tra il PCI e la DC per realizzare una nuova maggioranza di governo e assicurare la stabilità democratica in un periodo di terrorismo e crisi economica – e la sua ferma condanna del malcostume politico, aveva cercato di modernizzare il partito e di proiettarlo verso una nuova dimensione democratica e autonomista.
Questi giovani compagni rappresentavano le «nuove leve», l’ala più progressista del partito locale, che con forza e convinzione aspirava a cambiare radicalmente il modo di fare politica. Il loro obiettivo era quello di superare le pratiche tradizionali e, talvolta, opache, introducendo maggiore trasparenza nei processi decisionali, promuovendo una partecipazione più attiva dei cittadini e puntando a un’amministrazione più efficiente e vicina alle reali esigenze della comunità. Tuttavia, le speranze riposte in questo slancio riformatore erano destinate, almeno in parte, a scontrarsi con una realtà più complessa.
Il PCI valenzano, nonostante le promesse e le aspettative di molti simpatizzanti locali che vedevano in Berlinguer una guida e nei suoi discepoli un’opportunità di rinnovamento, non riusciva a dimostrarsi il partito riformista, audace e coraggioso che molti sognavano da tempo. Negli anni Settanta, le ambizioni di cambiamento si infrangevano contro un muro di resistenza interna. Le dinamiche consolidate, la forza delle correnti conservatrici, la burocrazia interna e, in alcuni casi, una certa inerzia culturale, impedivano la realizzazione di un rinnovamento profondo e strutturale. Il risultato fu un senso di crescente delusione tra la base e l’elettorato più progressista, segnando una fase di innegabile declino per il partito a livello locale.
Qui, la persistente eco di vecchie ideologie, lungi dall’essere un mero sottofondo storico, pulsava ancora con forza, condizionando scelte e orientamenti. All’interno del Partito Comunista, la frattura era palpabile e si manifestava attraverso l’esistenza di una corrente innovativa minoritaria. Questi membri, che si sentivano in una posizione di svantaggio numerico e di influenza, lottavano strenuamente per far sentire la propria voce. Spesso legata a figure emergenti, animate da una visione più moderna e pragmatica della politica, questa minoranza si trovava a confrontarsi con l’anima più profonda e, per certi versi, più inossidabile del partito: quella ancora saldamente ancorata a schemi concettuali e operativi ereditati da un passato glorioso ma, nel frattempo, diventato ingombrante.
La ferita ideologica, mai completamente rimarginata, tra i supposti «marxisti» più ortodossi e i «meno-marxisti» valenzani, che osavano mettere in discussione dogmi consolidati, riprendeva a pulsare con intensità sotto la superficie di una facciata di unità. Questo divario, lungi dall’essere una semplice divergenza di opinioni, alimentava una serie di tensioni interne che si traducevano in discussioni estenuanti, blocchi decisionali e, in ultima analisi, in un rallentamento oggettivo dell’evoluzione del partito, impedendogli di affrontare con slancio le nuove sfide poste dalla società. La dialettica interna, invece di essere un motore di crescita, rischiava di trasformarsi in una zavorra tesa a negare certi fatti.
Eppure, un segnale di cambiamento, seppur embrionale, era dato dall’ascesa di nuovi quadri femminili. Queste figure, con la loro energia e le loro nuove prospettive, iniziavano ad assumere posizioni di maggiore responsabilità, portando una ventata di aria fresca in un ambiente tradizionalmente maschilista. Tuttavia, nonostante questi segnali promettenti, il PCI valenzano manteneva, nella sua essenza più profonda, una struttura monolitica, quasi granitica, che opponeva una resistenza passiva ma tenace a qualsiasi tentativo di riforma radicale.
Questa monoliticità era permeata ancora da una forte e radicata influenza filosovietica, un’adesione ideologica e sentimentale al modello dell’Unione Sovietica che fungeva da vero e proprio ancoraggio al passato. Tale fedeltà, spesso incondizionata, al modello sovietico si traduceva in una profonda diffidenza e in una difficoltà quasi insormontabile nell’aprirsi verso le esperienze socialiste occidentali, considerate con sospetto e, talvolta, con un distacco che confinava con il disprezzo.
Le vie nazionali al socialismo, le proposte di riforma e le aperture democratiche che animavano i partiti di sinistra nell’Europa occidentale venivano viste come pericolose deviazioni dall’ortodossia, se non addirittura come tradimenti dell’ideale rivoluzionario. In questo contesto di profonda ambivalenza e conflitto irrisolto, la strategia politica del «compromesso storico», ideata da Enrico Berlinguer e volta a cercare un’inedita e audace alleanza con la Democrazia Cristiana per affrontare la crisi italiana, generava interrogativi drammatici e resistenze fortissime all’interno di una frangia conservatrice del partito valenzano.
L’idea stessa di collaborare con il «nemico di classe» era un anatema per molti, una rottura troppo brusca con decenni di contrapposizione ideologica. La sua concreta applicazione sul territorio valenzano, dove le divisioni erano già così marcate, non faceva altro che esacerbare gli animi, mettendo a nudo le crepe più profonde di un partito che, pur nella sua storica importanza, sembrava intrappolato in un eterno conflitto tra la sua eredità e le incalzanti necessità del futuro. Il limbo politico valenzano, dunque, era un micro-cosmo che rifletteva in modo esemplare le grandi contraddizioni che agitavano la sinistra italiana di quel periodo.
I «profeti» del partito comunista locale, figure storiche come Lenti, Ravarino, Bosco, Lombardi, Tosetti e altri, continuavano a esercitare una notevole influenza. Questi comunisti, dichiarati e non nascosti, noti per il loro temperamento forte e a volte intransigente, erano però riconosciuti per la loro integrità morale. Rappresentavano un comunismo di vecchio stampo, distante dal dinamismo e dalla leggerezza che caratterizzavano le nuove generazioni di militanti, perseveravano a offrire una politica di sinistra tradizionale.
All’inizio del decennio Ottanta, l’intesa comunale PCI-PSI iniziava a scricchiolare sotto il peso di piccoli rimbrotti, di silenzi imbarazzati e di una mancanza di reale affinità. I due partner politici si ritrovavano costretti a convivere, in un matrimonio di convenienza sempre più logoro, simile a quello di una coppia di vecchi coniugi che, dopo anni di vita insieme, si sopportano più che amarsi.
La situazione precipitava fino al punto di non ritorno e, nel 1984, come una sentenza inevitabile, arrivava il divorzio politico in Comune, segnando la fine di un’era e aprendo la strada a nuovi equilibri e a nuove alleanze.
Nel panorama politico locale, il Partito Socialista si distingueva per la sua capacità di captare le trasformazioni in atto nell’elettorato. A differenza di altre forze politiche, il PSI comprendeva che il tradizionale voto di appartenenza, radicato in solide fedeltà ideologiche e familiari, stava progressivamente cedendo il passo a un voto più fluttuante, influenzato dall’opinione e orientato allo scambio di favori e promesse.
Questa capacità di adattamento e di lettura dei mutamenti sociali conferivano a questo partito un vantaggio strategico non indifferente. Pur riconoscendo il Partito Comunista come suo interlocutore privilegiato, in virtù della lunga e consolidata collaborazione nella gestione amministrativa del Comune, il PSI non si precludeva altre possibilità.
La collaborazione con il PCI, seppur segnata da tensioni e disillusioni derivanti dallo squilibrio di potere tra le due forze, non impediva al PSI di avanzare proprie proposte e di manifestare la volontà di instaurare un dialogo costruttivo con l’area «laica», comprendente partiti di ispirazione liberale, repubblicana e socialdemocratica. Questa apertura rappresentava un seme destinato a germogliare, gettando le basi per una nuova dinamica di relazioni tra le formazioni politiche locali, più fluida e meno vincolata agli schemi ideologici tradizionali. Tale evoluzione, inevitabilmente, provocava un senso di malessere e apprensione tra i comunisti valenzani, che vedevano erodersi la loro egemonia e la loro posizione di forza.
Infatti, a partire dal 1981, emergevano crescenti dissidi tra il PSI e il PCI, che incrinavano la solidità dell’alleanza di governo. I rapporti tra i due partiti, un tempo improntati a una collaborazione apparentemente idilliaca, si deterioravano progressivamente. Oltre alle divergenze ideologiche di fondo, che rimanevano latenti ma sempre presenti, balzavano alla ribalta concezioni divergenti sul futuro sviluppo della città. Si discuteva animatamente di «politica artigianale», di un «palazzo degli affari» (probabilmente un centro congressi o un polo fieristico) e di altre iniziative urbanistiche che riflettevano visioni contrastanti sull’identità e la vocazione di Valenza e alcuni altri nodi irrisolti.
Tuttavia, era soprattutto la controversia sulla spartizione dei posti dirigenziali all’interno della USL 71 (Unità Sanitaria Locale) a portare il rapporto tra i due partiti della sinistra sull’orlo della rottura. La gestione della sanità locale, con le sue implicazioni in termini di potere e di controllo delle risorse, diveniva un terreno di scontro particolarmente acceso. Nonostante i segnali premonitori di questa crisi imminente, i comunisti non sembravano manifestare eccessiva preoccupazione per la piega che stavano prendendo gli avvenimenti.
Presumibilmente, riponevano ancora fiducia nella propria capacità di persuadere e di ricondurre i socialisti a più miti consigli, riportandoli nell’alveo della collaborazione tradizionale. Tuttavia, questa ipotesi appariva sempre meno verosimile, dato il crescente divario tra le posizioni dei due partiti e la determinazione del PSI a rivendicare un ruolo più incisivo nella politica locale.
Elucubrazioni post marxiste a parte, andiamo alla cronaca. Verso la fine del 1981 un evento tanto atteso quanto discusso si rese concreto: l’avvio dell’attività della piscina comunale coperta. Era stata, senza ombra di dubbio, la struttura più desiderata dai valenzani, una promessa accarezzata per anni, un progetto lungamente atteso, soprattutto da chi considerava la politica un affare sporco, con cui non intendeva mischiarsi. Ma era anche la più costosa, un investimento considerevole per le casse comunali. E, come si sarebbe presto dimostrato, sarebbe diventata la più tribolata, un fardello di problemi e controversie. L’inaugurazione della piscina, anziché unire la cittadinanza in un sentimento di orgoglio e condivisione, aprì un nuovo fronte di battaglia politica. La polemica divampò rapidamente e, inevitabilmente, con i socialisti i ponti, già precari, saltarono di nuovo.
La nuova società sportiva di nuoto, incaricata della gestione della struttura, fu immediatamente presa di mira dall’opposizione, definita con toni aspri e ironici come un’entità «a responsabilità comunista quasi illimitata» e di natura «partitico-familiare», insinuando favoritismi e opacità nella sua composizione. Sembrava che un virus invisibile, capace di azzerare il buon senso e annebbiare la lucidità mentale, si fosse diffuso in città. Quando gli animi sono esacerbati, quando la sfiducia è radicata, ogni minima occasione di scontro, per quanto futile, viene colta al volo. Basta un battito di ciglio, un’inezia, per dare stura all’insofferenza accumulata, che funge da propedeutica ad ogni dissidio, ad ogni litigio.
Il matrimonio politico, metaforicamente parlando, era ormai logoro, segnato da molti bassi e pochissimi alti, un rapporto fragile e instabile, sull’orlo del collasso. L’inaugurazione della piscina, lungi dal rappresentare un nuovo inizio, si rivelò un ulteriore tassello di un mosaico politico sempre più frammentato e conflittuale.
L’amen veniva recitato nella seduta consigliare del 17 marzo 1982. Le tensioni, già palpabili da tempo, esplosero in un acceso scontro verbale. I rappresentanti del Partito Socialista, animati da un evidente risentimento, levarono alte le loro voci, denunciando con veemenza quello che percepivano come un comportamento egemonico da parte del Partito Comunista. L’accusa era grave e pesava come un macigno sull’equilibrio politico della giunta. Nel culmine della disputa, i socialisti annunciarono la loro irrevocabile decisione di dimettersi in massa, abbandonando i loro incarichi all’interno dell’amministrazione. Questa mossa drammatica lasciò i comunisti in una posizione di isolamento, relegati a governare la città con un monocolore politico, una situazione tanto inattesa quanto delicata. Alcuni avevano perso la testa, ma, per qualcheduno, perderla significava prima averla.
Nonostante l’apparente forza del PCI, detentore di una maggioranza numerica (16 consiglieri su 30) conseguita grazie a un favorevole risultato nelle ultime elezioni comunali (con il 45% dei voti), la loro leadership si trovava ora in una situazione di profonda fragilità politica. Era una classica «buccia di banana», un imprevisto che si sommava a una situazione già tesa e carica di problematiche irrisolte, la «goccia» che faceva traboccare il vaso.
A seguito delle dimissioni socialiste, Bellini e Leoncini, entrambi esponenti di spicco del PCI, furono chiamati a sostituire gli assessori uscenti Siligardi e Lottici; i dimissionari del PSI, lasciavano un vuoto significativo nell’amministrazione. Per lo PSI, questa rottura segnava un passaggio a una posizione ambigua, oscillante tra l’indipendenza e l’opportunismo. Non più parte della maggioranza, ma neanche apertamente schierati all’opposizione, i socialisti adottarono così spesso la tattica dell’astensione, un modo per marcare la distanza e mantenere aperte diverse opzioni politiche.
Emblematico di questa nuova dinamica fu il dibattito e l’approvazione del bilancio comunale per il 1982. Un bilancio di notevole entità, superiore ai 34 miliardi di lire, che, secondo molti osservatori, profumava già di campagna elettorale. Il documento finanziario venne approvato grazie ai voti congiunti del PCI e del Partito Repubblicano Italiano, mentre lo PSI si astenne, confermando la sua posizione neutrale. La Democrazia Cristiana, invece, si oppose con fermezza, votando contro il bilancio.
Le elezioni comunali del 1983 rappresentarono un momento cruciale. I comunisti, trainati dalla forza del Partito, ottennero un significativo 45% dei voti. I socialisti si attestarono al 12%, mentre la DC raggiunse il 25%. A sorpresa, il Polo Laico conquistò un ragguardevole 14%, dimostrando di aver saputo intercettare una parte consistente dell’elettorato.
Il clima politico locale si faceva sempre più denso, un intreccio di manovre e calcoli che presagiva una svolta. Gli incontri tra i rappresentanti dei vari partiti si susseguivano con frequenza quasi febbrile, sintomo di un equilibrio precario e di una competizione accesa. Un dato in particolare spiccava, segnando una rottura con il passato: il Partito Comunista, per anni dominatore incontrastato della scena politica locale, aveva perso la maggioranza assoluta dei consiglieri. Questa erosione del potere comunista apriva le porte a nuove dinamiche, alimentando le ambizioni di altre forze politiche.
A rafforzare ulteriormente questa trasformazione, si era fatta largo una nuova entità politica, il Polo, una formazione che, pur non dichiarandosi apertamente populista, ne incarnava alcune delle caratteristiche, raccogliendo consensi tra un elettorato insoddisfatto dalle politiche tradizionali. Con ben quattro rappresentanti in consiglio, il Polo Laico si candidava a giocare un ruolo decisivo nel supporto alla futura governance locale.
Di fronte a questo quadro intricato e incerto, i comunisti, immersi nello studio di documenti e statistiche, cercavano disperatamente una soluzione, un modo per «salvare capre, cavoli e cavolfiori», ovvero per preservare i loro interessi e la loro influenza senza compromettere eccessivamente la loro immagine. Si trovavano di fronte a un bivio: da un lato, la possibilità di «calare le braghe», in altre parole cedere alle richieste dei socialisti, accettando un compromesso che avrebbe intaccato la loro reputazione e il loro prestigio; dall’altro, il rischio di dire addio a certe poltrone, rinunciando a posizioni di potere che avevano detenuto per anni.
Alla fine, dopo settimane di intense riflessioni e accese discussioni interne, i comunisti si dovettero arrendere all’evidenza e accettare la realtà dei fatti. Compresero che l’unica via d’uscita era quella di fare un passo indietro e offrire allo PSI la carica di primo cittadino. Era una decisione senza precedenti, uno scenario altamente indigeribile per molti compagni, una rottura con la tradizione che avrebbe segnato una svolta storica nella politica locale.
Escluso la nomina del sindaco socialista della Liberazione, Marchese, non era più successo che un socialista ricoprisse quella carica, ma come si suol dire, c’è sempre una prima volta (o seconda). Anche ai migliori, anche a coloro che per anni avevano dominato la scena politica, capita di dover cambiare idea, di adattarsi alle nuove circostanze e di accettare compromessi per il bene della comunità. Il vento stava cambiando, e persino il Partito Comunista, un tempo baluardo dell’ortodossia ideologica, doveva prenderne atto.
Dopo tre mesi di annusamenti e prove d’intesa, dietrofront e ripensamenti, prevaleva l’anima pragmatica di alcuni padri nobili della sinistra, Valenza aveva finalmente un sindaco: il socialista Franco Cantamessa, che riceveva in premio una croce e una gita sul calvario.
Per dirla tutta, l’arte del governo di sinistra locale Il meglio lo aveva dato quando questa combinazione, da puzzle, si era trasformata in pastrocchio e ben presto diventò sempre più improbabile la prosecuzione di quest’esperienza di giunta, che naufragava dopo poco tempo.
La seduta consigliare del 12 ottobre 1984, che insediava il nuovo sindaco e la nuova giunta, si trasformava in un deplorevole reality show di cinque ore e, dopo circa quarant’anni il PCI valenzano restava senza «poltrone» a Palazzo Pellizzari: si era illuminato d’immenso e infine è precipitato. Nuovo sindaco diventava Gino Gaia dello PSDI, con una maggioranza che definire eterogenea – DC, PSI, POLO LAICO – è un eufemismo. Durerà anch’essa solo nove mesi, spostando la resa dei conti solo poco più in là. Cantamessa e Gaia sono state due figure poco malleabili dalla casta, di spessore culturale e capacità amministrative, che con la nomina a primo cittadino hanno subito quasi un torto a se stessi.
Le elezioni del 1985, con il Partito Comunista attestato al 41,85%, la Democrazia Cristiana al 30,33% e il Polo Laico e i Socialisti insieme al 20,68%, rappresentarono il momento cruciale. Furono proprio i socialisti, con una mossa strategica, a fornire la «spintarella finale» che sancì la fine del dominio dei comunisti e la loro uscita dalla guida di Palazzo Pellizzari.
Il Piccolo – Mercoledì 24 ottobre 1984
Il Piccolo – Mercoledì 4 dicembre 1985
Ai primi di dicembre, l’ingegnere Cesare Baccigaluppi, esponente del Partito Socialista Italiano, prestava giuramento nelle mani del Prefetto, assumendo ufficialmente la carica di neosindaco, nonostante non avesse mai militato attivamente nella politica cittadina. Si preparava a guidare una giunta inedita, composta da forze dissimili, sostanzialmente antitetiche, che tuttavia per un certo periodo troveranno un punto d’incontro.
Baccigaluppi era noto per la sua professionalità e serietà, qualità che però non si traducevano in un forte ascendente all’interno del suo stesso partito. Affronterà la nuova sfida con passione e dedizione, trovandosi tuttavia immerso in un ambiente politico ingessato, erede di una tradizione conservatrice che lo avrebbe «cotto a fuoco lento» fino alla fine del suo mandato.
La frattura politica nella sinistra locale, e non solo, era diventata insanabile. I comunisti, colti di sorpresa e sentendosi quasi raggirati, terminavano la loro lunga stagione di potere ribollendo di sdegno, un destino, a ben vedere, comune a chi, assuefatto al successo prolungato, finisce per credersi invincibile. I socialisti, rompendo gli schemi tradizionali, intraprendevano un’alleanza inusuale con la Democrazia Cristiana e le forze del Polo Laico (Partito Repubblicano Italiano – Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Liberale Italiano), uniti dall’obiettivo comune di governare la città. L’ampio spettro ideologico, che spaziava dai cattolici ai miscredenti, sembrava unito da un unico denominatore: la sete di potere. Nasceva una alleanza di governo locale intrisa di conflitti interni di cui nessuno sembrava accorgersi.
In quel particolare momento storico, l’eterogeneità ideologica parve non importare, e, come si suol dire, «tutto faceva brodo» pur di raggiungere l’agognato obiettivo.
Al 19° congresso del PCI di Valenza, tenutosi il 26-27-28 febbraio 1986 al Valentia, veniva aperto il capitolo nuovo. Dopo le sconfitte subite era naturale che ci fosse una riflessione interna. Due le tesi: crisi ideologica e quindi politica, adeguamento alla moderna società democratica con un’azione che andava «profondamente ritoccata». Bene, così i riformisti erano felici del participio passato (ritoccata), e i massimalisti dell’avverbio (profondamente).
Il partito comunista valenzano, infine, voltava pagina e si affidava a un nuovo gruppo dirigente nel quale di capi storici se ne contavano meno.
Era però un partito logorato anche da tensioni per la leadership. Doveva tenere insieme, da una parte il gruppo giovane proveniente da Avanguardia Operaia (Borioli, Bove, ecc.), da un’altra parte i «senatori» e talenti di governo (Ravarino, Bosco, ecc.), immuni al passare del tempo; poi c’era l’altro gruppo giovanile della FGCI (Pistillo, Legora S., Lenti A., Negri, ecc.) più vicino alla linea nazionale occhettiana e quella valenzana dell’ex sindaco Lenti, per la trasformazione del partito (Bertolotti, Buzio, Ruzza, ecc.). Pochissimi i miglioristi favorevoli ad avvicinare il PCI al riformismo del «cinghialone». Il leader futuro Tosetti, sostenuto dall’ala sindacale operaista, stava invece ancora cercando aiuti e sostegni. Ipercompetitivo, non amava troppo gli smarcamenti, e troppo poco i mischiamenti. Lo si vedrà invecchiare con la fascia tricolore al collo.
Il nuovo Comitato direttivo era composto da: Bosco, Buzio, De Bertolo, De Cicco, Di Carmelo, Di Pasquale, Giordano, Legora, Leoncini, Lonetti, Norese, Pisani, Pistillo, Richetti, Rossin, Ruzza, Silvestrin. Era lì che succedeva tutto. L’assise vide la sofferta uscita dalla scena politica di un simbolo e una bandiera carismatica del partito: Luciano Lenti. Nessuno più di lui ha interpretato e riassunto le contraddizioni del ricco borghese comunista valenzano. Eppure, certe volte, accomiatarsi è il passo più dignitoso.
Verso la fine degli anni Ottanta, il Partito Comunista era quindi a un bivio culturale, ideologico e politico: da una parte la Terza via – una via di mezzo tra il comunismo sovietico e il capitalismo selvaggio – dall’altra il ritorno al grande mito della rivoluzione e al grande apparato ideologico con quel pensiero unico che quasi impediva di ragionare; insomma, il vecchio armamentario della sinistra che oggi, scomparsi gli scontri dottrinali, ci sembra quasi patetico di fronte alle attuali tragedie e alle nuove minacce che probabilmente ci aspettano.
Le ultime consultazioni degli anni Ottanta avevano posto ai dirigenti comunisti valenzani l’urgenza di aprirsi al nuovo e, per togliere l’impressione di un partito rivolto più al passato che al futuro, spingevano in questa direzione i membri del direttivo valenzano Lenti, Bosco, Ghiotto, Buzio, Bertolotti e Leoncini.
Gli iscritti totali erano circa 700, ma le due sezioni locali erano vuote, senza vita, e nelle iniziative sociali-ricreative locali che vedevano protagonisti i giovani valenzani c’era troppa assenza di comunisti. L’onda politica, con i suoi ardori, si era ritirata parecchio anche tra i tanti astuti capitalisti locali di sinistra che parlavano in un modo e vivevano in maniera opposta.
Ormai da un decennio, la segreteria cittadina del PCI era occupata da permalosi funzionari non valenzani (Di Leo, Bassini, Marostegan), che non avevano trovato il giusto collante con la realtà di questa città; occorreva uscire dal guscio di un apparato troppo burocratico e sospettoso per percepire i bisogni e le spinte che venivano dalla gente, non essere soltanto il partito delle tessere e non affidare la rappresentanza in fabbrica solo al sindacato.
Nel corso degli ultimi decenni, il PCI aveva sempre mantenuto la trasformazione socialista del paese come obiettivo della propria azione politica, una meta che nessuno aveva mai messo in discussione, anche perché la politica del partito era costantemente premiata dai risultati elettorali; ma, dopo la sconfitta alle elezioni amministrative del 1985 e, soprattutto, nel referendum promosso dallo stesso PCI sulla «scala mobile» avvenuto nello stesso anno, al «Cremlino valenzano» per un po’ di tempo regnerà uno sconforto condito da incredulità e travasi di bile.
Animato dalla volontà di rivalsa e dal senso di ostilità, il gruppo consigliare comunista, composto da gente scaltra e competente ma troppo vanagloriosa, attaccava continuamente la coalizione che governava problematicamente la città dal 1985, formata dai fedifraghi socialisti, un tempo tanto amati, dagli imperituri nemici confessionali democristiani e dai nuovi arrivati del Polo Laico (PRI-PSDI-PLI); il loro era un voto contrario permanente, anche su provvedimenti nati prima. Dalle loro bocche usciva sempre il solo deprecabile avverbio negativo, anteponendo sovente l’ideologia della contrapposizione all’interesse generale: un disprezzo a priori, quasi etnico. Nei consigli comunali, gli assessori in carica sembravano pupazzi che l’opposizione comunista strapazzava, incurante d’ogni rispetto, accusandoli di manifesta incapacità e conclamata inadeguatezza.
Nel giugno del 1988, il segretario Gabriele Marostegan dichiarava che non c’era nessun rapporto con questa maggioranza che si credeva autosufficiente. Al comando del partito gli subentrerà Ciro Pistillo, che di battaglie giovanili se ne intendeva, essendo stato tra i più attivi nelle dispute elettorali scolastiche e nella FGCI. Alcuni dei nuovi dirigenti, erano fioriti nella sinistra alternativa e transitati nell’unità proletaria, altri erano cresciuti nella FGCI. Quasi tutti – Bove, Borioli, Legora S., Lenti A., Lopena, Miotto e altri – si erano ritrovati nel Circolo culturale Palomar della Sinistra giovanile, nato nel 1986 dal gruppo di giovani della cosiddetta «sinistra sommersa», un circoletto gauchista di giacobini arrabbiati abituati a considerarsi eticamente sopra gli altri. Volevano tagliare gli sprechi, ma qualcuno di loro, con appartenenza tiepida, taglierà presto la corda alla faccia dell’ideale mondo nuovo.
Dal 1987 al 1989, l’azione riformatrice di Achille Occhetto sembrava muoversi in perfetta sintonia con quella di Mikhail S. Gorbaciov: cambiare e anche molto, ma nell’ambito della prospettiva socialcomunista, secondo l’ottica berlingueriana dell’immissione di elementi di socialismo nella società italiana. La vera crisi del partito esplodeva dopo la grave flessione elettorale nelle elezioni politiche del 1987, in cui localmente otteneva alla Camera il 35,85% (nel 1976 era stato il 48,83%) e, sebbene il direttivo valenzano dava la sensazione di impegnarsi facendo appello a tutte le sue risorse, personali e politiche, venivano a galla alcune ingenuità.
La più importante fase di cambiamento nazionale si compiva tra la fine del 1989 e il febbraio del 1991, e consistette nel mutamento del nome e dell’identità ideologica del partito. Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, che sanciva la fine di un’epoca, il segretario generale del PCI Occhetto, nel corso di una manifestazione partigiana in un quartiere di Bologna, enunciava il progetto di trasformare radicalmente il partito in una nuova «cosa».
Il fragore della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, non fu soltanto un evento fisico, ma un sisma politico che scosse le fondamenta dell’Europa e del mondo. Veniva sancita, in modo inequivocabile, «la fine di un’epoca», un’epoca della vergogna dominata dalla Guerra Fredda, dalla divisione ideologica e dalla minaccia costante di un conflitto nucleare.
L’onda d’urto di questo avvenimento si propagò inesorabilmente attraverso i paesi dell’Europa dell’Est, accelerando processi di cambiamento già in atto e innescandone di nuovi, impensabili fino a poco tempo prima.
In Italia, Achille Occhetto, il segretario del Partito Comunista Italiano, eletto l’anno precedente e già fautore di una linea riformatrice, percepì immediatamente la portata storica di questo momento. Annunciò, con una decisione che avrebbe segnato per sempre la storia della sinistra italiana, la trasformazione del PCI, un partito nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale e legato indissolubilmente all’ideologia marxista-leninista. La scelta, lungamente meditata e accompagnata da un profondo travaglio psicologico sia a livello personale che collettivo, sarà poi ratificata dal congresso del gennaio 1991, da cui nascerà il Partito Democratico della Sinistra (PDS).
Prima di chiudere definitivamente le porte alla vecchia «bottega» e riaprirle con la nuova insegna, più moderna e meno compromettente, nell’animo dei tardo-marxisti del Valentia, radicati nella realtà locale e abituati a schemi consolidati, convivevano e confliggevano sentimenti contrastanti. Da un lato, l’entusiasmo e il desiderio di affrontare la nuova avventura politica, di partecipare alla costruzione di un futuro diverso e di non rimanere ancorati al passato. Dall’altro, la paura di rimpiangere quel passato, di aver compiuto una scelta sbagliata, di aver abbandonato i valori e gli ideali che avevano animato la loro militanza per decenni.
A Valenza e dintorni, il tempo sembrava scorrere più lentamente, conservando le tracce di un’epoca ormai al tramonto. Ora che il Muro era crollato addosso, metaforicamente e non, il mal di capo era fortissimo, la confusione regnava sovrana. Era arduo scordare gli slogan del vecchio PCI, la retorica della lotta di classe, le promesse di un futuro radioso sotto la guida del proletariato, la propaganda che paventava la trasformazione del nostro paese in una fotocopia della Germania Est, un incubo sventolato ad arte dall’opposizione per alimentare le paure nella popolazione.
A Valenza, inevitabilmente, qualcuno, con la disinvoltura tipica di chi vuole cavalcare l’onda del cambiamento, dichiarava di non essere mai stato veramente comunista, ma soltanto «berlingueriano», ammiccando a Enrico Berlinguer, segretario del PCI più incline al compromesso e all’eurocomunismo. Un’affermazione che suonava come una sorta di «larghe intese» ante litteram, un tentativo di mediazione tra anime diverse della sinistra i cui pilastri emotivi già vacillano, un modo per attenuare le posizioni più estreme e rendersi più presentabili al nuovo scenario politico. Altri consideravano il marxismo quasi una curiosità numismatica, un pezzo da collezione ormai privo di valore pratico.
Nonostante le dichiarazioni e le apparenti metamorfosi, la «ditta», come veniva affettuosamente e ironicamente chiamato il partito, rimaneva sostanzialmente nelle consuete mani, con i fantasmi dei propri ideali perduti a tormentare le coscienze e ad alimentare un certo senso di smarrimento.
In questi anni, nel PSI si sentiva il profumo d’arroganza; questo partito (con atteggiamenti opportunistici e l’illusione della perpetuità) ormai tendeva a dipingersi come l’unico depositario dell’efficienza e del progressismo e faceva sempre più intendere che senza di lui non ci sarebbero state né giunte né maggioranze stabili: forse bisognava semplicemente consegnargli le chiavi e le poltrone.
A Valenza e nell’alessandrino le due anime del partito erano inverse a quelle nazionali. Qui era sempre la sinistra ad avere la maggioranza, anche se con un atteggiamento meno ideologico e più pragmatico (i craxiani non avevano che pochi simpatizzanti tra quelli che più contavano), ma l’unione con i partiti di centro in Comune contraddiceva per molti socialisti valenzani una virtù importante: la coerenza politica. Al programma realizzato verrà a scarseggiare la fortuna, non la qualità, distante già in partenza.
Il partito aveva abbandonato l’ideologia marxista, ma si era fatto promotore di tutte le campagne ispirate al radicalismo e all’individualismo libertario e permissivo, come quelle per il divorzio, l’aborto, l’eutanasia. Si vedrà costretto ad affrontare una sfida inedita: quella con il partito comunista, sullo stesso terreno del riformismo e della socialdemocrazia.
Il segretario, prototipo della sezione, era stato a lungo Zanotto. I dirigenti più attivi erano stati Cantamessa, Lottici, Moncalieri, Monaco, Mortari, Borsalino, Mancino, Negri, Stanchi e, l’onnipresente plenipotenziario, Gianfranco Pittatore, che fiuterà ben presto l’aria nuova e muterà rotta puntando, con successo, su altre destinazioni. A lui, figura chiave in moto perpetuo, si addiceva il proverbio «nemo propheta in patria», ma solo per sogli politici.
Con il crollo del muro di Berlino dell’89, reputando imminente una conseguente crisi del Partito Comunista Italiano, Craxi (che aveva guidato il suo primo e secondo governo dal 1983 al 1987) inaugurava l’idea della “Unita Socialista” da costruire insieme con il devoto PSDI e nella quale coinvolgere anche ciò che sarebbe nato dalle ceneri del PCI. Un viaggio con formule retoriche, buone quasi sempre, che localmente sarà costellato di brutte sorprese e cadute nell’irrilevanza.
(SEGUE)