La Sinistra a Valenza (quarta parte)
16-7-1959 il Presidente Gronchi a Valenza
Blog, Cultura & Spettacoli
Pier Giorgio Maggiora  
16 Novembre 2025
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Il saggio

La Sinistra a Valenza (quarta parte)

Prosegue l'approfondimento a puntate del professor Maggiora

La Sinistra a Valenza (quarta parte)

La Sinistra a Valenza (terza parte)

VALENZA - La Seconda Guerra Mondiale scoppiò nel 1939 e assunse un’espressione planetaria. La volontà invasata di un dittatore invasato, sciaguratamente…

VALENZA – Negli anni Cinquanta le strategie politiche locali ricalcavano spesso le storie ironiche di Peppone e Don Camillo. A Valenza, come in tutto il Paese, era una guerra spietata di delegittimazione tra democristiani e comunisti (incolpati di lodare le disumane oppressioni vigenti in Unione Sovietica). Intransigenti e frementi, incapaci di dialogare, nutrivano tra loro un odio antropologico contro l’avversario, quasi razzista: guelfi e ghibellini, come rispediti indietro di un millennio. Si consideravano a vicenda indegni di governare e solo molto più avanti fingeranno di essersi sempre rispettati.

I comunisti locali erano convinti che i pericoli per la loro indipendenza e per l’Italia venivano da più direzioni: un intervento americano, i trattati europei, le interferenze della Chiesa. Anche in politica estera era tipico di questa sinistra manichea sbagliare alcune scelte di fondo nel momento in cui si presentavano e solo molto più tardi riconoscerne l’errore (CEE, NATO, dittature comuniste). Si sentivano sempre nel giusto, non si facevano mancare odio e disprezzo per gli avversari politici. Intransigenti e frementi, erano incapaci di dialogare con gli antagonisti democristiani e socialdemocratici, ma anche alcuni di questi irriducibili avversari nutrivano per questi «bolscevichi mal riusciti» un odio politico e culturale antropologico quasi incontrollabile.

Ma il cambiare idea più tardi non sarà un indice di incoerenza, semmai un ravvedimento virtuoso sull’eccessiva faziosità presente in questi anni.

Dopo la conferma socialcomunista nelle elezioni comunali del 1960, il carismatico Lenti veniva riconfermato primo cittadino. In queste consultazioni si palesava una buona avanzata comunista — 42,97% con 13 seggi su 30 — dovuta alla forte influenza che il partito aveva avuto sui numerosi immigrati giunti a Valenza in quegli anni, al voto delle consistenti nuove generazioni e alle molte iniziative popolari (petizioni, cortei, scioperi, ecc.) promosse su problemi d’interesse pubblico immediato (scuola, sanità, casa), oltre al travaso di ex voti socialisti. Verso la classe operaia, però, l’attenzione continuava a essere scarsa; il partito delegava alla sola Camera del Lavoro la gestione di questo movimento tanto importante, quanto politicamente poco considerato nella realtà valenzana.

Nel 1960 gli eletti in Comune erano: Lenti Luciano, Fusco Rocco, Lombardi Renzo, Minguzzi Tullio, Gatti Pietro, Carnevale Giovanni, Legnani Paolo, Bosco Giovanni, Giordano Francesca, Guidi Luigi, Ravarino Renzo, Meli Michele ed Emanuelli Giovanni.

Nel pieno dell’ascesa, nel 1960 il Partito aveva 1.200 iscritti, di cui 550 operai e 300 artigiani. La percentuale di operai orafi, circa 200, era bassa confrontata ad altre categorie di lavoratori, mentre era alta la percentuale di imprenditori-artigiani e il consenso che il partito riceveva dalla cittadinanza non militante.

A Valenza il comunismo «immaginario» non attingeva forza dal serbatoio della protesta popolare e dal malcontento degli strati più oppressi, ma coinvolgeva soprattutto una piccola e media borghesia di artigiani e commercianti le cui attività prosperavano. Era una strana situazione, in contrasto con quella nazionale, che si manterrà costante per lungo tempo.

Alla guida del partito — che da 15 anni conduceva e gestiva abilmente le sorti del Comune, seppur in un clima di scontro permanente — c’erano i principali esponenti dell’amministrazione comunale, pragmatici e infaticabili: Lenti, Bosco, Ravarino, Fusco, Carnevale, Gatti, Lombardi, Quarta e altri. Giuseppe Gatti era il segretario sezionale e Renzo Lombardi l’amministratore: adeguati al ruolo, erano i custodi inossidabili del comunismo sociale e impeccabili signori di sinistra antica dal fiuto fine.

Se a livello nazionale la rottura con i socialisti — formazione del centro-sinistra nel 1963 — aveva accresciuto l’isolamento del partito, a Valenza il PCI era penetrato a fondo nella cultura e nell’economia della città e manteneva il prestigio dell’essere stato la forza leader dello schieramento antifascista. Come in molte altre parti del paese, anche qui si stava confermando l’egemonia culturale della sinistra, un gruppo intellettuale snob dal pensiero unico che spesso disdegnava chi era meno erudito: un manipolo di «Unti del Signore», anche se limitato a una ristretta minoranza.

La festa annuale estiva dell’Unità non era solo un evento ricreativo, ma anche di cultura, dibattiti e finalizzato a raccogliere sussidi consistenti; la complessa attuazione era nelle mani dei volontari del partito, che non era poca cosa, e la partecipazione era sempre ampia e generalizzata.

Nelle elezioni politiche del 1963, per la seconda volta dal dopoguerra, un valenzano entrava in Parlamento: era l’autorevole sindaco della città Luciano Lenti, che, esercitando tutto il suo carisma, era eletto alla Camera nelle liste del PCI con ben 16.080 voti di preferenza (sarà deputato al Parlamento Italiano per due legislature: 1963-1968, 1968-1972). E anche il timone del governo cittadino resterà saldamente in mano sua per lungo tempo.

Alla fine del 1963, in città i tesserati al partito comunista erano circa 1.300, di cui 574 operai (nei quali 212 erano orafi, 220 calzaturieri e molti edili), quasi 400 del ceto medio (di cui 307 artigiani orafi e 31 calzaturieri), 52 commercianti, 18 contadini, 21 impiegati e 278 altri (158 pensionati e 120 casalinghe). La media dell’età degli iscritti valenzani era di 45 anni. Gli iscritti alla federazione giovanile locale erano 170, con pochi studenti.

Le sezioni a Valenza erano 3, in via Melgara (Valentia), funzionava un ufficio di segreteria dove erano permanentemente occupati due funzionari e due impiegate.

Nominato nel luglio del 1964, l’eloquente comitato di zona era composto da: Lenti, Ghersi, Quarta, Bosco, Lombardi, Gatti G., Pistillo, Pelizzari, Mazza, Gabba, Minguzzi, Ferraris, Molinelli, Legnani, Lombardi, Carlevaro, Lenti, Ricaldone, Braggione, Bighi, Marchelli, Rigari, Pellottieri. Nella FGIC, non sempre allineati, c’erano: Ronza, Pellottieri, Fusco, Pampirio e Ravenni. Il segretario del comitato di zona era il giovane Enrico Pistillo.

Da anni l’Unità era venduta a domicilio nei giorni festivi (500 copie distribuite dagli attivisti di partito e 400 nelle edicole). Dal 1961 il periodico locale Valentia offriva spunti sulla situazione politica locale e nazionale; efficace e consolatorio era il sostegno al partito di CGIL, ANPI, UDI e Alleanza Contadina.

Ciononostante, nel movimento operaio vi era una scarsa volontà di intraprendere un’effettiva lotta di classe, a causa della realtà vissuta nelle aziende, per la maggior parte a conduzione semi-familiare, e della possibilità per ogni soggetto di travasare da una classe all’altra. Neanche la differenziazione sociale era molto rilevante: quasi tutti gli imprenditori erano stati al loro tempo lavoratori dipendenti. Questa realtà bloccava il movimento operaio sia nella lotta sindacale che nel partito operaio comunista, che annoverava tra i suoi iscritti, in particolare nella dirigenza, un alto numero di imprenditori orafi generalmente amanti del conformismo economico e poco pronti alla lotta di classe poveri contro ricchi: un connubio tra sinistra e capitale.

Qui l’elaborazione togliattiana della «via italiana al socialismo» era poco considerata, come se solo in piccola parte si guardasse al futuro e per il resto ci si rivolgesse orgogliosamente alle certezze arrugginite del passato. La forza posseduta veniva spesa perlopiù sui temi internazionali, in una martellante propaganda contro l’imperialismo americano, la NATO, l’europeismo del governo e in favore dell’URSS e di Cuba — soprattutto dopo la ridicola e fallimentare invasione organizzata dalla CIA nel 1961.

Era lo stile dei tempi, erano irriducibili posizioni che solo più avanti si riveleranno in gran parte velleitarie, con una perdita generazionale di memoria. La maledizione di questo partito non era avere alcune idee sbagliate — sarà contrario anche alla TV a colori, al part-time delle donne, ecc. — ma il tempo infinito che impiegava ogni volta a liberarsene: chissà se per quel certo sentimento di intransigente superiorità morale o per coprire la propria fragilità analitica.

Una buona parte del ceto medio valenzano era vicina alla sinistra, pur conservando valori e mentalità piccolo borghesi. In questo periodo molti imprenditori comunisti di casa nostra convivevano con l’ingombrante paradosso di poter essere comunisti e ispirarsi con certi principi teorici all’ideologia marxiana e alle sue derive collettiviste leniniste o maoiste, ammettendo al tempo stesso le azioni della società capital-borghese da loro tanto disprezzata e criticando pure l’occidente che li aveva resi facoltosi. Questi erano malevolmente chiamati capitalcomunisti o proletari a ostriche e champagne dagli avversari (Il Popolo di Valenza giornale della DC), ma avendo una genuina passione ideale di provenienza forse sono stati meglio dei loro eredi veteromarxisti. Dopotutto anche Engels era capitalista, e i rappresentanti del popolo non conoscevano ancora il digitale e il troppo grande e complicato turbocapitalismo odierno.

I socialisti valenzani, pur essendo stati profondamente scossi e duramente indeboliti dalla dolorosa scissione dei socialdemocratici di Romita, un evento che aveva minacciato di compromettere seriamente la loro struttura e la loro influenza politica, dimostravano una straordinaria capacità di resilienza. Con un energico e meticoloso sforzo riorganizzativo, intrapreso con determinazione e un instancabile impegno da parte dei militanti e dei dirigenti, riuscirono non solo a superare il colpo inferto, ma anche a ricostruire le proprie basi.

Tale slancio ricostruttivo si tradusse, in breve tempo, in un’acquisizione di apprezzabili risultati elettorali, che testimoniavano la ritrovata vitalità del partito e la rinnovata fiducia dei cittadini. Questa fase di ripresa fu ulteriormente consolidata dal ritorno, ben presto, di alcune figure politiche di spicco che, in precedenza, avevano scelto di aderire al PSDI. Tra queste, si distinsero in particolare Giacomo Capra e Paolo De Michelis, il cui rientro nel PSI non solo rafforzò le fila del partito con elementi di provata esperienza, ma diede, pur con una certa sicumera, nuovo impulso al dibattito interno.

All’interno del Partito Socialista Italiano, infatti, si registrava in quel periodo un vivace e infiammato dibattito politico, pressoché un’eredità del vecchio socialismo ottocentesco e primonovecentesco. In questo contesto, tra gli esponenti più impegnati e attivi, spiccavano diverse personalità, ciascuna con il proprio contributo distintivo. Oltre allo stesso Giacomo Capra, che si dimostrava un protagonista di primo piano sia come consigliere provinciale che come delegato al congresso nazionale nel cruciale anno 1957, si annoveravano figure come Vittorio Terzano, Luciano Debandi, Carlo Pozzi, Carlo Baroso, Angelo Annaratone, Ferruccio Rossi, Massimo Aviotti e il giovane e promettente Giulio Mario Vecchio. Questo gruppo eterogeneo di leader e militanti rappresentava la spina dorsale del partito, garantendone la rappresentanza e la capacità di incidere sulla vita politica locale.

Un aspetto fondamentale di quel periodo era la collaborazione tra i due principali partiti della sinistra, il PCI e il PSI, che in un accordo di comune intesa reggevano le sorti del Municipio. Questa alleanza strategica consentì una gestione amministrativa orientata al benessere collettivo, favorendo in larga misura lo sviluppo dei lavori pubblici e la realizzazione di alcune opere infrastrutturali di fondamentale importanza per la città. Tra queste si possono citare la costruzione o la riqualificazione di strutture essenziali come l’asilo, il macello, i bagni pubblici, il cimitero, la colonia estiva, le scuole, e l’elaborazione del primo Piano regolatore della città, strumento indispensabile per la pianificazione urbanistica e lo sviluppo futuro.

Un elemento cruciale che marcò profondamente il dibattito interno alla sezione socialista, influenzando le discussioni e le posizioni politiche, fu l’escalation degli eventi internazionali. La dirigenza, pur manifestando una decisa opposizione a talune proposte, evidenziava un’accoglienza più favorevole nei confronti dell’apertura verso i cattolici. Questa propensione, tuttavia, era intrinsecamente legata alla ferma intenzione di salvaguardare un’autonomia d’azione a livello dell’amministrazione locale. Tale autonomia, lungi dall’essere un mero principio astratto, si traduceva concretamente in una netta preferenza per la collaborazione con i comunisti, ma la precisione analitica, il tempismo decisionale e l’incisività progettuale sembravano qualità negate a questa leadership imprigionata in una nociva incertezza generale.

Ciò era probabilmente ascrivibile a una condizione interna di forte frammentazione: una dirigenza pregna di smaniose soggettività, dove l’ambizione individuale prevaleva sulla visione collettiva, e di personalismi esasperati che ostacolavano una coesione efficace. In questo scenario di incertezza interna, ulteriormente amplificato dagli eventi nazionali e mondiali che si susseguivano con ritmo incalzante, la dirigenza socialista valenzana guardava al proprio futuro con una profonda inquietudine e un senso palpabile di smarrimento. Le sfide globali, unite alle tensioni interne e alla mancanza di una direzione unitaria, proiettavano un’ombra lunga e minacciosa sulle prospettive a lungo termine.

In questi anni, nel gruppo dirigente socialista, emergeva Luigi Capra che sosteneva le tesi nazionali di Basso; si formarono le varie posizioni a seguito delle correnti createsi a Roma. Il dibattito era alquanto vivo negli ultimi anni ’50 secondo dinamiche che spesso avevano del paradossale; solo dopo il tracollo nelle comunali del 1960 (PSI 4 seggi, PSDI 3 seggi) esplodevano a pieno i contrasti che si erano astrattamente contenuti fino ad allora e i proclami di aggregazione, o di allargamento, sembravano ormai quei sogni belli e impossibili da realizzare.

Il PSI valenzano era un gruppo che aveva guardato sempre troppo al passato e poco al futuro, organico o semplicemente cortigiano al Partito Comunista locale. Nel decennio gli iscritti erano passati da 80 nel 1951 a 140 nel 1956, a 130 nel 1960 (ma il numero dei tesserati dati dai partiti erano in genere farlocchi); la sede del partito restava sino al 1955 in via Pellizzari, poi era trasferita in via Garessio, luogo di molte rabbiose assemblee, anche pubbliche. Alla segreteria della sezione si susseguirono, tra il 1950 e il 1960, Ferruccio Rossi, Pierino Genzone, Paolo Vecchio e Giulio Mario Vecchio. Nel 1960 furono eletti consiglieri comunali per il PSI Rossi, Capra, Vecchio Mario e Vecchio Paolo; nella giunta entrarono Capra e Vecchio Paolo.

Il partito socialdemocratico manteneva nel periodo una posizione critica, spesso carica d’invettive, verso l’amministrazione comunale socialcomunista. Una buona parte dei suoi elettori e degli esponenti più in vista era su posizioni politiche che si potevano collocare a destra della DC. L’assenza quasi totale dei partiti di destra imponeva ai saragattiani, che avevano una buona struttura organizzativa locale, un ruolo di estrema opposizione alle forze della sinistra, pur contraddicendo sovente alcuni dei principi fondamentali del partito. A Valenza nelle elezioni politiche del 1953 per la Camera il PSDI aveva ottenuto il 12%, come pure il PSI. In quelle del 1958 il PSDI il 9% e il PSI il 19%.

Nella seconda parte degli anni Cinquanta, all’interno della direzione, alcune figure di primo piano manifestavano sempre più la volontà di ricercare una qualche collaborazione con gli «odiati» cugini socialisti che, nel frattempo, riflettevano posizioni analoghe a metà strada tra provocazione e utopia. Nelle elezioni comunali del 1956 il PSDI otteneva quasi il 13% e 4 seggi; un risultato più che buono. I due partiti socialisti con 11 seggi superavano il PCI che aveva ottenuto 10 seggi.

Nel 1955 il PSDI di Valenza aveva 85 iscritti, il suo Comitato direttivo era così composto: segretario di sezione Giovanni Vescovo, vice segretario Pietro Visconti, segretario amministrativo Giovanni Soro, responsabile di zona Giusto Tortrino, collaboratori Bosco, Masteghin e Poli; responsabile del CISS era Renzo Passalacqua e responsabile dell’UCSI Enrico Robotti. La commissione elettorale era composta da Camurati, Scalcabarozzi, Bona e Buzio. In Comune c’erano i consiglieri socialdemocratici Angelo Buzio, Giovanni Vescovo ed Ezio Deambrogi.

Quando la linea autonomista di Nenni si affermava al XXXIII congresso nazionale del PSI (gennaio 1959) e la sinistra socialdemocratica usciva dal PSDI (febbraio 1959) costituendo il Movimento di Unità e Autonomia Socialista (MUIS), nel PSDI di Valenza si produceva una movimentata scissione che creava un accanito dibattito senza esclusione di colpi in seno al partito e nella sua rappresentanza in Consiglio comunale (Poli Alberto Valles, Luigi Buzio, Enrico Accomello e Mario Scalcabarozzi).

I quattro dirigenti socialdemocratici Cantamessa G., Codetta, Cresta e il consigliere comunale Accomello uscivano dal partito, ideologicamente ormai quasi di centro-destra, e formavano il nuovo gruppo MUIS, un isolotto aggrappato a una specie di socialismo liberale, ma il «coup de foudre» aveva però breve durata; infatti, nel mese di giugno, seguendo la linea nazionale, i quattro esponenti confluivano nel PSI. È quindi difficile parlare di avvicinamento tra i due partiti socialisti di Valenza, quando invece questo stava avvenendo a livello nazionale. Solo dopo il 1960, più costretti che convinti, i socialdemocratici valenzani muteranno i loro comportamenti al riguardo, e questo pervicace far da sé e per sé sarà una condanna e la decadenza del partito. Anche se dai mutamenti la democrazia pare tragga la sua linfa vitale.

Nell’ottobre del 1964 la locomotiva elettorale era in pieno movimento e i vari partiti stavano preparandosi ad affrontare la sfida che portava al voto del 22 novembre per il rinnovo del Consiglio comunale. Annusando bene si sentiva odore di cambiamento, ma pochi prevedevano il preambolo del periodo politico tanto convulso che sarebbe stato uno dei più ricchi di contraccolpi nell’esercizio del governo di Valenza. Si dovrà votare per ben tre volte in due anni per riuscire a dare una nuova giunta comunale e amministrativa alla città e la ricerca del dialogo tra le parti parrà una sorta di Santo Graal.

Il fatto incontrovertibile che sconvolse il rapporto di maggioranza in queste, e nelle successive, elezioni amministrative comunali, era la divisione dei due partiti socialisti che certo non giovava alla sinistra (il PSI abbandonava il PCI): era arrivato a maturazione uno scontro aspro e inusitato che si era manifestato già all’indomani della nascita dello PSIUP (principale e involontario artefice della crisi). Infine, dopo tre match infruttuosi finiti alla pari (15 a 15 i consiglieri eletti) e il logorio inglorioso e snervante della mediazione, dietro le minacce roboanti e le formule retoriche, si avvertiva finalmente la volontà di scendere a patti per non seguitare a farsi male. Infatti, nella seduta del 19 febbraio 1966, veniva eletta una giunta «di salute pubblica», chiamata anche tecnico-amministrativa, condotta dall’integro e austero sindaco indipendente PCI Virginio Piacentini.

L’accordo era visto come un piano di rifugio più che un patto con il diavolo, tra calibrature e compensazioni (giunta iniziale senza i DC, inseriti poi un anno dopo), sotto la morbosa necessità di stare assieme, anche se già dopo poco tempo non ci si sopportava più e non si combinava granché e ritornava al comando della città la sinistra social-comunista. Nell’ottobre del 1969 l’esclusione dello PSU, e le dimissioni degli assessori democristiani, diventavano l’atto conclusivo di una travagliata vicenda nella quale la buona volontà di molti non era bastata a sanare irriducibili contrapposizioni esistenti tra i gruppi. L’esperienza di due anni e mezzo di gestione assembleare della città era stata molto difficile e aveva dato quello che poteva dare: poco.

Nella nuova Giunta facevano parte i dirigenti comunisti Gatti, Quarta e una vera «compagna»: Irma Lombardi. Che non era Golda Meir, ma era un’intelligente stacanovista. Poi gli indipendenti medici di sinistra Piacentini (sindaco e Gran Maestro) e Amisano, il socialproletario radical chic Capra carico d’inattaccabile autorevolezza, e l’inquieto maestro socialista Spriano, con pochi dubbi e nessun cedimento. Ma, stando al risultato della riunione consigliare, neppure questa maggioranza sembrava avere vita facile.

La fluidità dell’elettorato dello PSI restava però per certi aspetti un paradosso logico: se si spostava al centro, perdeva voti a sinistra, se ritornava su posizioni di sinistra, bloccava l’emorragia e guadagnava nuovi suffragi. Questo partito, popolato da soci poco obbedienti, dove strisciava pure la finzione, era così quasi costretto a un andirivieni tra «governatorismo» e «frontismo», tra una sorta di tecnocraticismo illuministico e un atteggiamento libertario.

Nei primi anni Settanta esisteva la sinistra istituzionale, saldamente al governo della città, auto-proclamatasi depositaria della moralità e del progresso – una sorta di aristocrazia ideologica che, non ancora convertitasi all’europeismo, con fare saccente, si ergeva a giudice supremo del giusto, venerando Pasolini e denigrando D’Annunzio, spesso senza averne mai approfondita l’opera, e una sinistra rivoluzionaria del pueblo unido, qui da noi solo a parole, incarnata da una sparuta ma agguerrita pattuglia di individui irrequieti, fedeli alle dottrine dei gruppuscoli extraparlamentari, sognatori di una palingenesi sociale radicale.

L’espansione del potere politico locale di sinistra, durante questi anni assumeva proporzioni gargantuesche e contribuiva a saturare ogni singolo interstizio della società valenzana. Era il moltiplicarsi dei «rifugium peccatorum», come venivano sarcasticamente definiti i posti di rappresentanza, dai meandri del Comune alle tentacolari municipalizzate, dai Consigli di frazione al Comprensorio, dagli organismi scolastici all’USL, fino all’Associazione orafa e alle innumerevoli commissioni, consorzi e cooperative, Si assisteva a una pervasiva commistione d’incarichi, spesso affidati a personaggi politici multiuso o presunti tali, che possedevano evidentemente il propizio dono dell’ubiquità. Erano apertamente scelti per fedeltà al partito con qualche baciamano degno di un vassallo, non certo per la competenza (molti non si erano mai occupati della materia che dovevano trattare, ma non era importante, le strade della politica sono sempre state infinite). Poiché, da sempre, il merito va bene solo finché rientra nel recinto ideologico giusto.

A Valenza, emblema della realtà sindacale locale del periodo, la figura carismatica, colui che raccoglieva e incarnava il malcontento popolare di lavoratori – un impavido tribuno della plebe, seppur in senso lato e forse un po’ enfaticamente – era il segretario della CDL, Tullio Minguzzi. La sua voce vetero-marxista si alzava a difesa delle classi disagiate, ma era una voce che spesso risuonava in un contesto scarso di anticapitalismo, sfilato con la più misericordiosa delle panzane: «Il sindacato non aderisce a manifestazioni di partito». L’egemonia della sinistra, un fenomeno palpabile e onnipresente in questi anni, aveva raggiunto proporzioni inaudite, senza incontrare resistenze significative.

Il panorama politico e sociale valenzano, come un affresco complesso, presentava un particolare fascino in questi anni in cui il comunismo esercitava ancora una notevole influenza. I militanti, spesso descritti con algida coerenza e di bocca buona, si auto-percepivano ancora come detentori di una eticità superiore, convinti della nobiltà dei loro fini. Questa convinzione, radicata in un’ideologia che prometteva giustizia sociale e uguaglianza, li portava a considerare le azioni degli avversari politici come motivate esclusivamente dalla brama di potere e dalla cupidigia di ricchezze.

C’era una netta divisione tra il «noi» virtuoso e il «loro» corrotto, una polarizzazione che alimentava la fervente dedizione dei seguaci. Tuttavia, tocca pure dire che la domanda cruciale rimaneva: quale fosse la vera forza attrattiva che il comunismo, declinato come dogma politico, esercitava su una porzione significativa della popolazione valenzana, soprattutto alla luce delle realtà spesso brutali e autoritarie del comunismo «realizzato» in Unione Sovietica, Cina, Cambogia e in diversi paesi dell’Europa orientale. Le notizie di repressione, carestie e violazioni dei diritti umani filtravano anche a Valenza, creando una dissonanza cognitiva per non pochi sostenitori. Eppure, l’ideale, depurato dalle sue applicazioni più distopiche, continuava a risuonare, nonostante l’elevata e quasi psicotica denigrazione offerta dagli oppositori.

Il tornante delle elezioni comunali del 1972 segnava un momento di trasformazione per il Partito Comunista locale. L’assorbimento degli elementi provenienti dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria accelerò un processo di rinnovamento della nomenclatura, portando alla ribalta una nuova generazione di leader. Questi giovani, sebbene educati nel rigore del centralismo democratico, si distaccavano dalle rigide idolatrie del passato. Mostravano una maggiore apertura e una più spiccata sensibilità verso le istanze del movimento studentesco e operaio, desiderosi di colmare il divario tra il partito e le realtà sociali in fermento.

Si aprì, inoltre, una nuova fase di interazione, seppur cauta, con le altre forze politiche presenti sul territorio. Si delineò così un approccio più pragmatico, un cosiddetto riformismo che mirava a rendere il partito più permeabile alle esigenze della società civile. Il Partito Comunista di Valenza divenne un luogo di dibattito interno vivace, animato da giovani scaltri e avveduti spesso provenienti da esperienze di militanza estremista, talvolta persino nichilista. Ma, pur nelle sue esagerazioni intellettualistico/politiche, la cosa aveva una sua moralità.

Questi individui, pur avendo abbandonato in parte il fervore ideologico della giovinezza, portavano con sé un’esperienza di impegno politico e sociale che contribuì a plasmare una nuova pratica. La FGCI locale aveva quasi un centinaio di iscritti e il PCI quasi un migliaio. Nel 1973 gli iscritti comunisti nella sezione Valentia erano 655 e nella sezione Emanuelli 230.

Anche a Valenza, l’aria di cambiamento politico soffiava, ma non spazzava via tutto. Il tentativo di rinnovamento all’interno del Partito Comunista Italiano locale si rivelava anche un processo selettivo, di volti noti per la loro coerenza nel tempo, escludendo figure familiari al panorama politico nostrano ma ormai prive di quell’energia propulsiva e della forza innovativa necessaria per navigare nelle nuove correnti.

L’organizzazione interna, però, mostrava una certa resistenza al cambiamento; il PCI valenzano, infatti, non si poteva ridurre a un mero museo di reliquie staliniste, ma era altrettanto lontano dall’essere quel partito «liquido ad organizzazione orizzontale», agile e flessibile, che le nuove teorie politiche auspicavano. I principali esponenti locali comunisti erano Lenti, Lombardi, Gatti,  Bosco, Tosetti, Quarta, Carnevale, Legnani, Legora, Polentes, Pistillo, Prato, Richetti e Ravarino capogruppo in Consiglio comunale. Molti furono in questi anni i segretari di sezione, altri dai già citati sono stati: Gabba, Mazza, Nebbia, Ravan.

In Comune la vera transizione stentava a compiersi. Il comando era saldamente nelle mani di un’individualità forte, marcata dal sindaco Luciano Lenti. Successore di se stesso, accentratore per vocazione, lo sceicco espiatorio di Palazzo Pellizzari continuava a dirigere il governo cittadino con piglio decisionista, orientando le politiche secondo la propria visione e interpretando in modo peculiare le necessità locali. La sua capacità di intercettare e manipolare il consenso era proverbiale. Non sorprende, quindi, che un ampio ventaglio di figure politiche gravitasse intorno a lui, schierandosi al suo fianco in un ruolo di ausiliari, mossi dalla tacita speranza di riflettersi nel suo successo e di godere, a loro volta, di quel bagliore che promanava dalla sua figura dominante nel firmamento politico locale.

Di lui si racconta di vittorie e di sconfitte, di scelte azzeccate e di errori di valutazione. Ma a Lenti va riconosciuto un merito indiscutibile: una dedizione incondizionata alla città, una disponibilità a mettersi in gioco ogni volta che Valenza si trovava ad affrontare momenti di difficoltà o ad inseguire opportunità di crescita. Non si è mai sottratto al proprio dovere, incarnando, nel bene e nel male, la figura del leader.

Ben più problematico, invece, era il quadro che si presentava all’interno del Partito Socialista Italiano valenzano, tutt’altro che compatto. Profondamente indebolito e lacerato dalle correnti interne, La cosa curiosa era che il PSI locale sembrava aver fatto del caos e della divisione la propria bandiera. I socialisti, con una quasi macabra maestria, sembravano capaci di incorporare al loro interno una varietà di anime, spesso animate da istanze conflittuali, per poi deluderle sistematicamente tutte.

Mentre a livello nazionale il partito viveva una fase di relativo successo, propiziata dalla figura carismatica del suo capo, a Valenza, lo scenario politico locale era tutt’altro che idilliaco. Aveva circa 150 valenzani iscritti che, pur mostrando una facciata di convivenza, erano quasi indifferenti a ogni antica sintonia. Tra i principali esponenti, e qualche colonello con gli alamari e la voglia di farsi desiderare, c’erano Canepari, Cantamessa, Lottici, Mancino, Negri, Pittatore, Rossi, Siligardi, Spriano e altri.

Il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, pur non condividendo un’armonia perfetta, si sforzavano di mantenere localmente un equilibrio precario (fino ad allora l’elisir di lunga vita), aggravando i dissidi esistenti, consapevoli della necessità di una collaborazione, seppur solo pragmatica. Dopo alcune battute d’arresto, a fine decennio il vincolo esterno funzionava ancora, ma per poco, la divisione non era più un sogno proibito per il PSI.

Alla fine degli anni Sessanta erano nati i movimenti studenteschi, fortemente critici verso chi governava. I manifestanti e contestatori giovanili valenzani erano un’espressione della sinistra estrema, molto vicina al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP) – attivo fra il 1964 e il 1972, nato da una scissione della corrente di sinistra interna del PSI nettamente contraria all’interruzione della linea politica frontista nei confronti del PCI. Inneggiavano ancora alla Cina e a Cuba come paesi ideali per l’uomo e contestavano quasi ogni aspetto dell’organizzazione sociale esistente, in particolare quella scolastica. In fondo buttandosi contro tutti era tutto più facile, soprattutto ai cercatori di visibilità.

Nella sede del PSIUP, in piazza Verdi, si ritrovava un certo numero di giovani studenti e operai che davano vita al «Collettivo operai studenti». Erano di natura extraparlamentare di sinistra, in certe occasioni quasi una cinquantina, fuori dei partiti politici esistenti, s’ispiravano ai nuovi gruppi di contestazione, sostenevano la laicizzazione della società e approdavano in piazza per difendere «la libertà» e «la giustizia sociale». Fra gli studenti calamitati si scorgevano anche Gatti e Morosetti, fra gli operai Ricci e Help, fra gli anarchici Prandi, che portava avanti da qualche anno un gruppetto di irriducibili valenzani vicini alla dottrina di Bakunin, non dichiarata, ma chiaramente desumibile. Un conflitto più raccontato che praticato dove non mancava una certa puzza di razzismo intellettuale e momenti di surreale amenità e utopia politica, sicuramente non radical e nemmeno troppo chic.

Siamo negli anni Settanta e la versione liberal della sinistra è ancora assai lontana, il nefasto nemico è sempre il capitalismo, il padronato e il mercato.

(SEGUE)

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26 Ottobre 2025
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VALENZA - Il secolo XIX fu un'epoca di rivolgimenti e lacerazioni sociali senza precedenti nella cit...
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