La Sinistra a Valenza (terza parte)
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Pier Giorgio Maggiora  
9 Novembre 2025
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Il saggio

La Sinistra a Valenza (terza parte)

Prosegue l'approfondimento del professor Maggiora

La Sinistra a Valenza (terza parte)

La Sinistra a Valenza (seconda parte)

VALENZA - Negli anni cruciali del 1898, del 1901 e del 1905, le richieste di una giornata lavorativa più umana, limitata…

VALENZA – La Seconda Guerra Mondiale scoppiò nel 1939 e assunse un’espressione planetaria. La volontà invasata di un dittatore invasato, sciaguratamente seguito da un popolo obbediente, indusse al conflitto anche genti e paesi che di far la guerra non avevano alcuna voglia. È stata la più devastante di tutti i tempi, dei 51 milioni di morti circa la metà erano civili. Un mondo dove successe di tutto e spesso il suo contrario per incapacità a comprendere le cose per quello che erano, alterato da un odio lurido e infame che rendeva ciechi. Purtroppo, va rammentato che la passione della blasonata Europa per le guerre era una perversione plurisecolare.

L’Italia, gonfiata dai venti della retorica e lavaggi di cervello, entrava in guerra a fianco della Germania il 10-6-1940 e, agli inizi del 1943, cominciava a delinearsi la sconfitta. Il Potere (con la pi maiuscola) inossidabile arrugginiva, la popolazione era stanca della guerra, del fascismo (termine ancora oggi molto usato a sproposito), dei tedeschi, degli avvoltoi che si erano ingrassati a spese di affamati derelitti e più che un funerale diventerà una liberazione.

Nell’estate del 1943 (il 15 maggio 1943 era nato il P.C.I.), tra tentativi falliti e euforie artificiose, frustrazione avvilenti e disorientamento generale, i comunisti valenzani intensificarono i contatti e gli incontri: il giorno della riscossa si avvicinava nel susseguirsi incalzante degli eventi. Dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943), le prime riunioni si tennero nelle case di Giovanni Dogliotti e di Francesco Boris, per valutare la situazione generale e l’azione da svolgere tra il visibile e l’invisibile.

Si stabilirono quindi i primi legami con esponenti esterni e con il valenzano Ercole Ferraris, fondatore e primo segretario del partito in Alessandria. Il P.C.I. era ufficiosamente rappresentato a Valenza da Ercole Morando: il calzolaio oppositore, senza peccato, uno sportivo sognante l’avvento di Stalin, che ha lottato a fianco dei principali rappresentanti provinciali. Tenace e coraggioso, egli era il punto di riferimento politico del comunismo locale che, pur con tante contraddizioni, rappresentava la scelta antifascista e repubblicana più radicale.

Le autorità fasciste locali impauritesi si resero conto che le loro idee erano destinate a soccombere. Un potere ormai snaturato e politicamente finito, con circonlocuzioni spericolate sulla necessità di collaborare col sedicente nuovo che avanzava (cioè mera sopravvivenza), convocava in Comune alcuni noti antifascisti per costituire un Comitato di difesa civile. Il Comitato era composto dai rappresentanti dei vari partiti antifascisti, Boris per i socialisti, Morando per i comunisti, Vaggi per la Democrazia Cristiana e Poggio per i liberali: una foglia di fico che sfumò in un batter d’occhio. Infatti, dopo poco, da questo primo nucleo, disarticolato e poco incisivo sulla vita reale, nasceva il C.L.N. locale costituito da Boris (PSIUP), Morando (PCI), Vaggi (DC), Corones (PdA), in seguito modificato e integrato con Cuttica (P.L.), Dogliotti (PCI), Scalcabarozzi prima e Mazza poi (PSIUP).

Ormai la gente era sempre più spossata, la vita quotidiana era mutata, cresceva l’avversione verso il fascismo che, sciaguratamente, aveva troppo mischiato elementi rivoluzionari e nazionalismo ed era ormai snaturato e politicamente finito anche localmente. Le tante scabrose e rituali riunioni degli antifascisti erano tenute in ordine di tempo in casa Boris, da Scalcabarozzi, all’Oratorio, in casa Mazza a Monte, in casa dei fratelli Marchese.

Il giorno in cui i tedeschi occupavano l’Italia, 8 settembre 1943, veniva fondata la sezione locale del Partito Comunista Italiano. L’evento, destinato a lasciare il segno, si realizzò in una singolare riunione notturna all’aperto in strada dello Zuccotto con la presenza di Armando Baucia, Dante Casolati, Giovanni Dogliotti, Enzo Luigi Guidi, Carlo Masi, Ercole Morando, Luigi Prato, Ferruccio Rossanigo, Pietro Rossi.

Le cariche del primo Comitato Comunista locale furono così distribuite: presidente Guidi, segretario Morando, economo Casolari, membro Dogliotti. Qualche settimana dopo, la segreteria veniva assegnata al Guidi, uno dei principali protagonisti della Valenza antifascista e partigiana; di coraggio e di pensiero, è stato un capostazione sempre impegnato a rivendicare l’orgoglioso crisma laico e libertario. Dogliotti invece era il leader virtuale che si mascherava con gran modestia; prestigioso incassatore, molto disponibile e vivace a livello sociale è stato rigidamente ortodosso in quello politico, sarà anch’egli protagonista della resistenza locale e diventerà sindaco della città nel 1951, in apparenza sarà assai rimpianto.

Dopo circa un anno, ancora in clima d’acuto conflitto (1944), le cellule del partito erano ben 30, ognuna delle quali controllava da 15 a 20 iscritti che si sottoponevano al versamento di contributi, sempre e solo tramite il loro capocellula. Era un’organizzazione formata in modo tale da mantenere segreti i nominativi degli iscritti. Da questo momento anche a Valenza cominciò a estendersi con successo l’organizzazione comunista, a produrre e diffondere materiale di propaganda, a stringere rapporti diretti con la classe operaia. È stata pure una miscela inebriante d’ideali manipolati che ad alcuni hanno dato alla testa, convinti di recitare la parte di protagonisti in un’opera drammatica diretta spesso da altri.

Poi il 12 settembre 1944, questa città diventò teatro di una delle più atroci azioni nazifasciste. Ben 27 partigiani della Banda Lenti, catturati nei pressi di Grazzano Monferrato, poi Badoglio (località Madonna dei Monti), furono uccisi dietro il cimitero della città. Sempre nel 1944 (15 giugno), fu fucilato in Toscana il partigiano valenzano Giuseppe Oddone e in un rastrellamento fascista, presso il bar Achille, Sandro Pino (gennaio 1944).

La mattina del 25 aprile 1945, mentre le truppe fasciste del IV Corpo d’Armata Lombardia stavano tentando una ritirata verso la Lombardia, si compiva, infine, uno degli atti più tragici della Resistenza valenzana. Tre partigiani valenzani, Mario Nebbia, Carlo Tortrino e Giovanni Valeriani, venivano fucilati (località «traghetto del Po») da una colonna di Brigata Nera, dopo essere stati sorpresi e catturati da una pattuglia tedesca nei pressi del fiume. Si salvò miracolosamente Giuseppe Nebbia, anch’egli messo al muro.

L’insurrezione del 25 aprile, spesso tanto decantata, a Valenza durò solo poche ore; per tre giorni squadre di fascisti spadroneggiarono nella città con soprusi e angherie. In quei giorni (25-29 aprile) nella nostra zona si trovavano concentrati circa 30 mila uomini armati che facevano parte della Divisione S. Marco, di circa una divisione e mezza tedesca, oltre ad alcune centinaia di uomini delle Brigate nere e della X Mas. Facevano parte del Corpo d’Armata Lombardia al comando del generale Jahn; provenivano dalla costa ligure e custodivano qui una testa di ponte per il passaggio oltre Po.

L’atto della resa steso dal prefetto Livio Pivano (azionista, nato a Valenza) fu firmato in prefettura il 28 aprile 1945 dal presidente Longo, dall’ammiraglio Girosi per il C.L.N. provinciale e dal generale Hildenbrandt per i tedeschi. Comprendeva la capitolazione del presidio tedesco di Alessandria e la resa della Divisione San Marco (di stanza a Valenza e appartenente all’armata del generale Jahn, poco propenso ad arrendersi al C.L.N.) Ma era di assoluta evidenza che Valenza restava ancora occupata dai tedeschi e da reparti della divisione S. Marco. La sacralità del fatto aveva lasciato il posto a un certo velleitario compromesso destinato però al fallimento.

Il prefetto Pisano, il dott. Luigi Fadda e l’ammiraglio Girosi furono costretti a venire a Valenza per trattare con il gen. Jahn la resa di tutte le forze che stavano confluendo a Valenza, in una situazione di sbando, allo scopo di guadagnare tempo e per passare il Po verso la Lombardia, ma solo a mezzanotte si riuscì a concordare la tregua delle ostilità e l’immobilità dei reparti fino alle 12 del giorno dopo, il 29 aprile. Dopo ulteriori trattative nella scuola Pascoli (allora «Ciano») nel mattino successivo, dove il comandante generale Farina aveva grossi problemi a convincere i suoi ufficiali ad accettare la resa già concordata, finalmente questa veniva firmata dal rappresentante dell’armata tedesca Zoban, dal rappresentante del C.L.N. provinciale Pivano e siglata da «Massimo» nome di battaglia del contrammiraglio Girosi: il rigoroso generale Jahn nella notte aveva già attraversato il Po.

Una fila suggestiva di tedeschi arresi e umiliati usciva dalla scuola «Costanzo Ciano» sotto il controllo degli americani: erano discinti, alcuni senza giacca e altri in mutande, diversi erano anziani. Un altoparlante montato sulla facciata della scuola diffondeva in continuazione il Bolero di Ravel – un’enfasi che oggi ci pare un tantino sopra le righe poiché non è stata un’eroica carica di cavalleria, ma una guerra civile con indegni massacri da ambo le parti, con esercizi di falsa misericordia e qualche pietosa bugia.

Il 30 aprile tutta Valenza era in piazza del Duomo davanti al balcone del Comune (Palazzo Valentino) dove si alternavano a parlare Pivano, Sisto, Boris, Vaggi e Guidi.  C’erano anche gli angloamericani e i valenzani osannanti festeggiavano la fine del regime; l’amara realtà fu la presenza di alcuni voltagabbana che, con instancabile ardore, sconfessando qualsiasi loro dimostrazione d’adesione ai miti del fascismo e fingendo di mostrarsi puri, salivano a forza sullo stipato carro dei vincitori in cerca di capri espiatori e momenti di gloria.

Purtroppo la festa fu guastata da qualche violenza gratuita e da certi spettacoli che sono quasi consueti verso i vinti.  Alcuni collaboratori fascisti furono fatti sfilare tra i vituperi della gente assiepata ai lati di corso Garibaldi. Nei rastrellamenti successivi furono catturati militari tedeschi, della Brigata Nera San Marco e della X Mas.  Anche Valenza avrà alcuni noti fascisti locali eliminati indecentemente nei giorni che seguirono la liberazione, come Gilberto Porta ed Eliseo Emanuelli. Dopo il furore iniziale, subito sedato dai responsabili del CLN, il comportamento dei nostri ex partigiani fu improntato a responsabilità e giustizia.

Dopo la liberazione, la Prefettura di Alessandria su proposta del C.L.N. insediò in Municipio un esecutivo di 9 membri a carattere provvisorio con il compito di amministrare la città e preparare le prime elezioni comunali del dopoguerra. Ne venne fuori un esecutivo composto dal sindaco Guido Marchese (un socialista titolare di un’azienda orafa, figlio dell’ultimo sindaco socialista), dal vice sindaco Francesco Camurati e da Giovanni Emanuelli (socialisti), dai comunisti Carlo Masi ed Enrico Rossanigo, dai democristiani Luigi Deambroggi e Pietro Staurino, dagli esponenti del Partito d’Azione Natale Legnazzi e Luigi Deambrogi.

Erano amici nella diversità, esempi di coerenza e di tenacia sia politica che morale, nonostante fossero culturalmente agli antipodi, ma più che uomini di governo sembravano tribuni romani della plebe. Somigliava una messinscena costruita sulla retorica e sulla propaganda, dominata dalla crisi di solidarietà fra i partiti che avevano combattuto nella Resistenza. L’impalcatura del regime era rimasta quasi intatta negli uomini e nelle linee degli atteggiamenti, un sistema circondato da un vago sottofondo di confusione nei comportamenti, con la grande questione irrisolta dei masochisti delle ideologie perse, troppo giustizialisti e intolleranti con i nemici, troppo garantisti e compassionevoli con gli amici.

La premessa di dare vita a un raggruppamento di partiti che unificava le esperienze positive della Resistenza non riuscirà. La vita politica era stata troppo sconvolgente e aveva consegnato una nuova classe reggente stanca e incapace di misurarsi con tutti i compiti che le piovevano addosso. In questo periodo, probabilmente, è stato un bene per l’economia locale non avere quasi nulla che spartire con la politica.

Baluardo della sinistra era il PSIUP, l’erede del vecchio Partito Socialista Italiano, sulla cui entità pesava l’esistenza del nuovo PCI. Se fino all’avvento al potere del fascismo il PSI era stato il centro del mondo operaio e popolare italiano, ora le vicende della lotta contro il fascismo e della guerra di liberazione lo avevano ridotto a uno e non il principale dei poli politici e organizzativi del movimento operaio. La varietà di composizione ideologica e politica contribuirà a determinare nei dirigenti socialisti valenzani marcate e improvvise oscillazioni politiche che costeranno parecchio in termini di consenso.

Nella costituente veniva eletto deputato il socialista Paolo De Michelis, una delle figure politico-istituzionali tra le più note della città. Egli sin dal primo dopoguerra partecipò alla conduzione del Partito Socialista a livello nazionale.

Dopo le elezioni comunali col sistema maggioritario del 31 marzo del 1946 (PCI+PSIUP 73,62%, 24 seggi su 30), nella giunta social comunista, che condurrà le sorti del Comune per lungo tempo, era riconfermato il sindaco socialista Guido Marchese, il quale sarà quasi usato e imbalsamato dalla potente e dominante falange comunista, pur se affiancato dagli assessori socialisti Francesco Camurati e Giacomo Capra.

Alla luce di tutto ciò, i rapporti con gli altri partiti erano ormai deteriorati e senza alcun dialogo; solo il Partito Socialista collaborava attivamente con i comunisti, nella gestione politico-amministrativa della città. Molti compagni di sinistra valenzani credevano davvero nella rivoluzione proletaria, nell’abbattimento dello stato borghese e nell’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione.  Settimanalmente si tenevano riunioni congiunte tra i direttivi dei due raggruppamenti di sinistra per concordare un’azione comune. Ma nei socialisti, che avevano avuto fino allora una spiccata capacità operativa, si stava formando una frattura interna per la scissione che maturava a Roma: un cambio di modello culturale, ancor prima che politico, lontano dalla vecchia sinistra.

Le elezioni politiche dell’aprile 1948 a Valenza, in realtà vedevano un calo dei due partiti della sinistra, in questa occasione uniti nel Fronte Popolare, che però mantenevano comunque una netta preponderanza sulle altre forze politiche locali. Invece la nuova lista socialdemocratica del PSLI otteneva ben 717 voti che corrispondevano al 7,68%. Un valore simbolico piuttosto suggestivo contro la sinistra, era la pietra tombale su un rapporto che non era mai seriamente sbocciato tra socialisti di centro e socialisti di sinistra.

Nelle travagliate vicende del socialismo italiano, dopo la scissione dell’11 gennaio 1947 – l’ala democratico-riformista guidata da Giuseppe Saragat, era uscita dal PSIUP e aveva dato vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI) – in città si assistette ad altri frazionamenti e a diversi tentativi di riunificazione impostati dalla corrente di sinistra del PSLI e da quella di destra del PSI. A Valenza esisteva sin dall’inizio un nutrito gruppo di socialisti molto vicino al deputato Giuseppe Romita, e un altro più consistente facente capo a Pietro Repossi, che sarà il segretario locale; quando Romita si distaccherà definitivamente dal PSI, anche il suo gruppo valenzano abbandonerà il partito, scegliendo una via diversa. Questi esponenti, che di sinistra avevano ben poco, nel 1950, daranno vita alla sezione locale del partito socialdemocratico (prima PSU, poi PS-SIIS, e infine nel 1952 PSDI).

Componevano il gruppo dirigente di questo nuovo partito il sindaco Guido Marchese, Mario Scalcabarozzi, Giovanni Vescovo, Luigi Buzio e Poli Alberto Valles che diventerà il leader della nuova formazione. Nel 1950 gli iscritti socialdemocratici erano circa 50 e nel 1951 Giovanni Vescovo fu eletto segretario della sezione; i «piselli», come venivano spregiativamente chiamati, mantennero la vecchia struttura del Partito Socialista al quale rimase solo un gruppo di veterani dirigenti formato da Ferruccio Rossi, Giovanni Vecchio, Luciano Debandi, Carlo Pozzi, Angelo Aviotti, Massimo Aviotti, Carlo Baroso, Giovanni Genzone, Oreste Ceva e il neo segretario Pierino Genzone.

Appare chiaro quindi che la scissione a Valenza non era giunta improvvisa ed era stata senza dubbio favorita dall’evolversi della situazione nazionale con pelosi teoremi costruiti ad hoc e valori che ciascuno declinava a modo suo, vissuti soprattutto come ostacoli, incrociando percorsi diversi: del resto si fa sempre fatica a rassegnarsi. Era lo scontro tra due concezioni, una principalmente classista (PSI) e l’altra principalmente liberaldemocratica (PSLI), troppo avverse e irriducibilmente incomunicanti sulla politica internazionale, ma accadevano anche baruffe familiari e disfide personali poco gloriose, con presupposti che muovevano o inceppavano ogni cosa dissolvendo ogni certezza in un vitalismo decadente e urticante.

I risultati delle elezioni comunali del 1951 davano torto ad alcune previsioni pessimistiche sul PSI che otteneva quasi il 20% dei suffragi e vedeva eletti ben sette suoi candidati nel Consiglio comunale, con un rilancio politico inaspettato e un catalogo di contraddizioni e contorsioni dialettiche fuori dal coro. Come consiglieri PSI In Comune furono eletti: Massimo Aviotti, Angelo Annaratone, Oreste Ceva, Giuseppe Raspagni, Ferruccio Rossi, Giovanni Genzone, Domenico Ferraris.

In questi anni, il Partito Comunista Italiano svolse un ruolo rilevante nel Paese, passando da una partecipazione al governo dopo la caduta del fascismo all’opposizione dopo le elezioni del 1948. Era il primo partito della sinistra, rappresentando la doppia natura di forza rivoluzionaria e partito di massa radicato nel tessuto sociale.

Nel 1956, mentre al XX congresso del partito comunista sovietico (febbraio) Nikita Kruscev elencava i crimini della dittatura staliniana di fronte ai delegati annichiliti, a Valenza «l’uomo d’acciaio» era ancora un oracolo e qualcuno lo avrebbe voluto santo. Poi, a stretto giro di posta, nell’autunno 1956, i carri armati sovietici arrivarono a Budapest e ben presto si accesero le polemiche.

All’improvviso sconcertanti verità si mostravano davanti agli occhi di molti, se fino ad allora nella dirigenza comunista valenzana c’era stata indulgenza e quasi connivenza con l’ideologia totalitaria sovietica, tanto da diventarne inconsapevolmente propagandisti, in molti sorgevano dubbi e problemi di linearità. Indignati e quasi con vergogna, alcuni esponenti locali del partito esprimevano giudizi di condanna anche severa verso quel brutale regime dispotico, facendo discutere parecchio anche su un altro tema caldo: le scosse della Guerra fredda in corso. Con la puzza sotto il naso, è sempre stato difficile decidere cosa era buono e cosa no, ma se non esisteva un impero del male ancor meno esisteva un impero del bene.

In Comune il PCI, con la sua radice leninista nell’individuare il degrado sociale in chiave politica, era di gran lunga il partito più forte e cementato, ma in futuro senza il PSI non riuscirà ad assicurarsi la maggioranza assoluta in questa città. Nelle comunali del 1956 il PCI otteneva 34,55% e in Consiglio comunale mandava questi 10 consiglieri: Luciano Lenti, Aldo Annaratone, Aldo Emanuelli, Rocco Fusco, Renzo Lombardi, Pietro Rossi, Pietro Gatti, Giovanni Carnevale, Luigi Favero, Ferdinando Morosetti.

Dopo Giovanni Dogliotti, primo cittadino comunista eletto nel 1951, Luciano Lenti, potente e competente altro comunista, era eletto sindaco della città nel 1956 e a lui restava il compito più difficile. Il PCI valenzano era un compatto partitone novecentesco, irreligioso e conformista, in cui c’era una scala gerarchica e quelli idonei erano scelti dall’alto, non certo attraverso primarie aperte a tutti. Gli altri, dominati dalla propria fede politica, erano spesso privi di spirito critico, avevano una sorta d’indifferenza valutativa e consideravano il partito come l’Assoluto possessore della fiaccola ardente della Ragione, seguendone pedissequamente la linea recitando spesso a soggetto, il cui obiettivo preciso però lo sapevano in pochi. Mancava un pensiero realistico disincantato, anziché il quaresimale sui tanti diritti violati dagli altri, e la conformità.

Allo stesso tempo il partito aveva più difficoltà a reclutare giovani, gli iscritti alla FGCI si erano dimezzati in pochi anni e i «pionieri» del dopoguerra, legati per rispetto e devozione agli esponenti più navigati e allineati, faticavano a entrare fra quelli che contavano.

Nel 1957 iniziava la costruzione della Casa del Popolo che sarà poi battezzata «Circolo Ricreativo Valentia» o semplicemente «Valentia». Sorta al posto di una fabbrica di calzature, l’opera verrà realizzata nel tempo libero da volontari, gradevolmente di parte, che s’improvviseranno nelle varie specializzazioni di lavoro. Oltre a essere luogo di ballo, sarà sede del partito in cui si formeranno molti protagonisti politici e sociali della città.

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