La Sinistra a Valenza (seconda parte)
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
2 Novembre 2025
ore
08:19 Logo Newsguard
Il saggio

La Sinistra a Valenza (seconda parte)

La seconda parte dell'approfondimento del professor Maggiora

La Sinistra a Valenza (seconda parte)

La Sinistra a Valenza (prima parte)

VALENZA - Il secolo XIX fu un'epoca di rivolgimenti e lacerazioni sociali senza precedenti nella città di Valenza. Un vento di…

VALENZA – Negli anni cruciali del 1898, del 1901 e del 1905, le richieste di una giornata lavorativa più umana, limitata a dodici e poi a dieci ore, e di un adeguato aumento salariale, accesero la miccia della protesta. Il popolo di Valenza si mobilitò, organizzando scioperi dimostrando la sua determinazione e la sua crescente consapevolezza dei propri diritti.

Nonostante le repressioni, il più delle volte prive di buonsenso, il fermento sociale e politico continuò a crescere. A Valenza, si affermarono con forza diverse realtà associative: il circolo socialista, punto di riferimento per chi credeva in un futuro di giustizia sociale; il circolo repubblicano, noto anche come dei Calottini, animato da ideali patriottici e democratici; il circolo delle donne, embrione di un movimento femminista che rivendicava l’emancipazione femminile ma incapace di affrontare certe questioni; e, infine, le leghe dei contadini, dei muratori e dei carrettieri, espressioni della volontà dei lavoratori di organizzarsi per difendere i propri interessi.

Su queste solide basi, sorse e si sviluppò il sindacato della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con la sua Camera del Lavoro, che divenne un punto di riferimento essenziale per la tutela dei diritti dei lavoratori e per la promozione di una società più giusta e solidale. Questo tessuto associativo, radicato nel territorio e animato da ideali progressisti di sinistra, costituì una potente forza di cambiamento che sfidò l’autorità e contribuì a plasmare la storia di Valenza.

Quindi, nel cuore del primo Novecento, Valenza si rivelò un vibrante focolaio di fermento politico e sociale, testimoniando un’adesione crescente agli ideali socialisti. Invece, i più impegnati e riottosi erano per lo più veterani del Partito Operaio e dei gruppi radicali, non certo alfieri del nuovo, condividevano poco le tendenze riformistiche (tra i più impegnati De Michelis, Camurati, Ferraris, Gaudino, Melgara, Marchese, Oliva, Soro, Tassinari, Vecchio, Visconti), alcuni avevano rifiutato l’anarchismo e certe astrazioni fanatiche, ma solo a parole.

Tra gli iscritti, molti erano invece i massimalisti sindacalizzati, impegnati nelle varie leghe e nelle organizzazioni sociali d’ogni seme, tra cui anche alcune teste matte imbevute di sindacalismo rivoluzionario e di elogio della violenza. Il giornale socialista locale “La Scure” (amato e detestato dai valenzani) era spesso insolente e offensivo. Pareva aver trovato la famosa tragica corda, evocata da Karl Marx: forse il contrario di quello che veramente serviva.

Già nel lontano 1905, in un’epoca in cui il suffragio elettorale era ben lontano dall’universalità odierna, l’elezione di Giusto Calvi, esponente del Partito Socialista, nel collegio di Valenza, non destava particolare sorpresa, bensì si poneva come un presagio di cambiamenti imminenti.

Un segnale ancora più eloquente giungeva nel 1910, quando la lista socialista, fino a quel momento relegata al ruolo di minoranza con l’accanito obiettivo di ostacolare chi governava, conseguì una vittoria trionfale alle elezioni comunali, segnando una svolta storica per la città. Con il tornado elettorale avveniva il trapasso definitivo dall’amministrazione municipale liberale a quella socialista, la quale iniziava così a costruire il fortilizio del proprio potere e la rovina degli altri. Un risultato clamoroso, una Waterloo che si abbatteva come ennesima clava sul moribondo movimento liberale valenzano inesorabilmente travolto, pure se non inatteso.

In un clima assai teso, con critiche velenose e insulti, il 16 luglio 1910 era eletto dal nuovo Consiglio comunale (presenti solo 23 su 30 membri) il primo sindaco socialista, il commercialista socialista ragionier Luciano Oliva. Determinato, penetrante e capace di affascinare, diventava la nuova star della sinistra valenzana.

La figura del nuovo sindaco segnava un vero e proprio spartiacque tra una «belle époque» (solo per una minoranza assai sgradita) e un’era disdicevole di conflitti bellici e sociali. Un cambio di modello culturale ancor prima che politico e, come ormai si usa spesso dire, nulla sarebbe stato più come prima.

Dopo alcuni mesi, in un clima prebellico, nelle elezioni comunali del 12 luglio 1914 i valenzani confermavano la loro fiducia alla passata amministrazione socialista. Il giornale socialista La Scure festeggiava grottescamente la vittoria «sull’accozzaglia di clericali, conservatori, liberali pseudo-democratici ed esercenti unitisi per difendere i propri interessi».

«Non possiamo restare indifferenti all’aggressione dei fratelli serbi, degli austriaci, dei russi…» si diceva in ogni parte d’Europa nell’estate del 1914, alla soglia della Prima Guerra Mondiale: un’ubriacatura guerrafondaia che sembra ancora non essere passata di moda. Ognuno dei belligeranti era convinto di poter battere gli avversari in pochi mesi, invece la guerra durerà più di quattro anni (28/07/1914-11/11/1918). Fu un’escalation fuori controllo e una catastrofe umanitaria ormai dimenticata che dovrebbe servire di lezione. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarava guerra all’Impero austro-ungarico, che era alleato a Germania e Impero Ottomano nel conflitto già in corso.

A Valenza i più convinti della neutralità erano i socialisti, che si batterono con scioperi e manifestazioni, esprimendo vivamente lo sdegno per l’immane tragedia che stava per abbattersi sulle genti, con le solite incrostazioni ideologiche. Sono state numerose le manifestazioni antimilitariste promosse dai socialisti, nelle quali il sindaco Luciano Oliva e Carlo Zanzi si distinsero per il modo in cui arringano la folla. Il 18 maggio 1915, quando ormai l’intervento era prossimo e lo sfacelo era dietro l’angolo, in piazza del Municipio tremila valenzani protestarono contro la guerra; in testa c‘erano i consiglieri socialisti De Michelis, Ferraris, Mazza e Raiteri. Intanto, tra proclami bellicosi, i pochi irriducibili socialisti rivoluzionari locali vedevano le radiose giornate del maggio 1915 come l’ultima occasione per scardinare l’ordine borghese e costruire un avvenire migliore per le masse popolari.

Dopo il 4 novembre 1918 – 11 novembre per tutti i belligeranti – a guerra finita, il volto dell’Europa era cambiato. È stata un’ecatombe umana e monetaria che ha corroso le tradizioni liberali e che favorirà nazionalismi e totalitarismi. In Italia la guerra significò quasi 700 mila morti e un milione di feriti (per lo più figli di contadini) su 36 milioni d’abitanti. A Valenza, tra i circa 1.000 militari partecipanti, ci sono stati 139 morti (129 nati tra il 1876 e il 1899), 36 mutilati e invalidi, molti feriti e altri deceduti per le conseguenze, su circa 12 mila abitanti. Morire per una guerra assolutamente inutile e pontificare sul nulla erano i concetti che incarnavano lo spirito dei tempi dove l’incoerenza pareva quasi una virtù.

Poi, nel triennio 1918-1921, con gli eccessi di una politica tossica, l’Italia fu teatro di un’intensificazione delle lotte sociali e politiche. Gli scioperi, già frequenti, diventarono un fenomeno pervasivo, non limitandosi a rivendicazioni salariali o di categoria. A distanza di un decennio di governo locale, nel 1920, Valenza si ergeva a baluardo del socialismo zonale, forte di una rappresentanza politica di spicco. Ben due deputati socialisti, Tassinari, un uomo proveniente dal mondo contadino, e De Michelis, un abile artigiano orafo, sedevano tra gli scranni del Parlamento.

A guidare l’amministrazione comunale vi era il sindaco Marchese, succeduto al sindaco Oliva, anch’egli legato al mondo dell’oreficeria in quanto fabbricante. La Camera del Lavoro, condotta dal segretario Barge, che aveva ereditato il ruolo dal deputato De Giovanni, rappresentava un punto di riferimento essenziale per i lavoratori e la sinistra locale. La forza del partito socialista si manifestava anche attraverso una sezione locale particolarmente attiva, guidata dall’indefesso segretario Morosetti, e una vivace sezione giovanile socialista, animata dal segretario Visconti. Però, la divisione all’interno del Partito Socialista Italiano si accentuava, dando origine a correnti e frazioni in competizione tra loro, alimentando personalismi e lotte intestine che, in seguito, avrebbero finito per toccare tutti gli strati del partito, minandone l’unità e l’efficacia politica.

Anche a Valenza il clima politico del primo dopoguerra era caratterizzato da una profonda e irrisolvibile frattura all’interno del Partito Socialista Italiano. Questa frattura non si manifestava come una semplice divergenza di opinioni, bensì come una vera e propria coesistenza di frazioni ostili, con vistose punte di radicalismo estremista che sovente perseguivano obiettivi e finalità opposte alla linea del partito.

Il dibattito infuocato che precedette la famosa scissione socialista di Livorno, con le sue implicazioni ideologiche e strategiche, si perse spesso in un labirinto di personalismi e superficialità. Nella loro essenza e portata, le diverse posizioni in campo al Congresso di Livorno non erano state comprese né dai dirigenti della sezione locale valenzana, ancorati a dinamiche di potere e rivalità interne, né tantomeno dai militanti di base, la cui percezione era spesso offuscata dalla propaganda e dalla mancanza di una reale formazione politica. Di conseguenza, l’adesione all’una o all’altra tesi, lungi dall’essere il frutto di un esame meditato e consapevole delle conseguenze, veniva a essere determinata più dalla simpatia personale per alcuni uomini, dalla rinomanza di dirigenti nazionali visti come figure carismatiche, o, più tristemente, dalla superficiale sentimentalità imperante nel partito, una romanticheria che si nutriva di slogan e promesse spesso vuote.

Quindi, Il 28 gennaio 1921, si tenne un’affollatissima assemblea generale dei socialisti valenzani per ascoltare la relazione dei rappresentanti Barge e Sacchi, reduci dal Congresso di Livorno di pochi giorni prima, dove si era verificata la scissione e i comunisti avevano abbandonato la sala e costituito al Teatro San Marco il Partito Comunista, sezione italiana della Terza Internazionale.

Anche a Valenza le discussioni diventarono lunghe e animate, parlarono abbondantemente Morosetti, Panzarasa, Mazza e Sacchi; infine, all’unanimità (meno uno), veniva approvata la relazione e le considerazioni dei due rappresentanti.

Tuttavia, nel pentolone socialista dei malumori e della criticità, i comunisti valenzani mugugnavano e facevano ormai fatica a sentirsi a casa propria e alcuni di loro, influenzati dalle posizioni marxiste e raggiunto così un perfetto disaccordo, nel vortice della polemica decidevano di abbandonare la sezione socialista frustando tutti. Tra questi, spiccavano i nomi di Panzarasa, Morando e Scalcabarozzi (il quale in seguito sarebbe poi diventato un esponente socialdemocratico). Questi fuoriusciti fondavano in via Magenta il «Circolo Comunista», un focolaio di attività politica e di proselitismo pressoché rivoluzionario.

In breve tempo, il Circolo Comunista di Valenza attirò un numero considerevole di aderenti, stimabile tra i quaranta e i sessanta membri, provenienti quasi integralmente dalle fila del Partito Socialista. Non un’espressione di legittima divergenza, ma una frattura valoriale da catechismo ideologico che distruggeva certe radici.

I primi dirigenti del circolo, tra cui Morando, insieme ad altri militanti come Casolati, Vaccario e Accatino, si tesserarono presso la sezione comunista di Alessandria, consolidando il legame con la struttura provinciale del neonato Partito Comunista d’Italia.

Questo fervore rivoluzionario, seppur localizzato, testimoniava la profonda crisi che attraversava il Partito Socialista e l’attrattiva esercitata dalle «nuove utopie comuniste» su una parte significativa della base di sinistra militante locale, stufa di correre dietro la gonna del Partito Socialista.

Mentre l’attesa per la regolarizzazione della posizione degli aderenti e dei frequentatori del circolo comunista si protraeva, un evento brutale sconvolse la vita della comunità valenzana. Il circolo, fulcro delle attività politiche e sociali dell’estrema sinistra locale, fu improvvisamente assaltato e dato alle fiamme da squadracce fasciste provenienti dai paesi limitrofi.

Il clima fu esacerbato dall’uccisione, avvenuta il 9 giugno 1921, di Vincenzo Alferano, un miliziano vittima sciagurata che da giorni si aggirava con altri camerati per Valenza, con il chiaro intento di fomentare disordini e tensioni. Si dirà, come si fa spesso, che se l’era andata a cercare, creando la «ratio» e il precedente disgustante.

La sua morte, per mano ignota, fu il pretesto o il «casus belli» per la repressione feroce e indiscriminata, con il chiaro obiettivo di dare vita al disordine e allo scontro fisico.

L’omicidio diede inizio anche a una serie di arresti arbitrari che colpirono esponenti di spicco del movimento di sinistra locale, tra cui Panzarasa, Mattacheo, Ferraris, Ratti, Zeme, Piacentini e molti altri intemerati. Nello stesso tempo, Valenza fu invasa da numerose squadracce fasciste provenienti dalla Lomellina, dal casalese e dal mandrogno, che seminarono il terrore con brutalità e disprezzo attraverso bastonature, umiliazioni con l’olio di ricino, ferimenti, incendi, invasioni di luoghi pubblici e privati, e provocazioni continue che miravano a piegare la resistenza della popolazione e a instaurare un clima di sottomissione.

L’assalto brutale al circolo comunista fu solo il preludio di una serie di atti vandalici e intimidatori: l’incendio devastante della Camera del Lavoro, simbolo dei diritti dei lavoratori, la distruzione e il saccheggio della sezione socialista, cuore pulsante della sinistra locale, l’imposizione coercitiva di abbandonare il Comune al sindaco Marchese, in piena crisi di autorevolezza, e all’intera inconsistente giunta socialista, lasciando campo libero al potere fascista.

Anche i luoghi di aggregazione giovanile, spazi di svago e di confronto, divennero bersaglio della repressione. Circoli come il Tramvai, il Mulino, l’Excelsior, l’Aurora e lo Juventus, frequentati da giovani con ideali e aspirazioni diverse, furono sistematicamente chiusi e soppressi, privando la gioventù valenzana di importanti punti di riferimento.

De Michelis, Sacchi, Lanza, Sassetti, Amisano, Genzone, Ferraris, sono i nomi di coloro che animavano il dibattito politico cittadino della sinistra, alla luce del sole mettendo in pericolo anche la loro incolumità; si ritrovavano lì, a volte divisi per età, altre volte accomunati dalla stessa sete di giustizia e di libertà. La «Botte» era frequentata dai padri e dai figli, dai vecchi socialisti e dai giovani ribelli, dalle guardie civiche e dai cittadini comuni, un microcosmo della società locale che rifletteva le tensioni e le speranze del tempo, animate con declinazioni diverse e anche da chiacchiere fantomatiche, salottiere e finto-strategiche, sovente in contrasto col sentire comune popolare.

Sempre più frequenti e violenti si facevano gli scontri con le squadre fasciste, fomentate dall’impunità e dalla crescente influenza politica. Allo stesso tempo, emergeva con altrettanta chiarezza l’esigenza inderogabile dell’unità del proletariato in un solo partito di classe, un’entità forte e compatta, guidata da una disciplina ferrea scaturente dall’unità e unicità della decisione e dell’azione. Si sognava un fronte compatto che potesse rappresentare un’alternativa credibile all’autocratico fascismo, che, però, per parecchi valenzani era un sano bagno di realtà in confronto del minuetto retorico della sinistra locale depotenziata e scontenta del mondo. Gramsci diceva che per giungere alla rivoluzione si doveva ottenere l’egemonia culturale, che qui non c’era.

Durante il regime molti esponenti della sinistra «clandestina» valenzana nutrivano ancora il sogno fascinoso dell’uguaglianza affinché si avesse come conseguenza la libertà; gradualmente però per alcuni la loro anima socialista era erosa e sostituita da una più adatta ai tempi di lotta: quella comunista. Pareva una lotta religiosa di redenzione prima che politica e non era così che doveva essere, ma è così che inevitabilmente era.

Se non erano in grado di compiere azioni eclatanti, erano invece molti attivi nel sostegno della stampa antagonista al regime; spesso alla stazione ferroviaria locale si verificavano scontri e scazzottate per l’illegale distruzione di giornali quali: Ordine Nuovo, Giustizia, Avanti. I loro locali pubblici di riferimento erano il Garibaldi e La Botte (la borghesia andava al Caffè Teatro).

Nei bar e nelle baracche lungo le rive del fiume Po, si riunivano spesso gli esponenti di questo variegato movimento di sinistra, accomunati dalla loro opposizione ai fascisti, considerati i peggiori nemici della società, e dal desiderio di costruire una società più giusta e solidale. Tra loro, si trovavano figure di diversa estrazione sociale e culturale: accanto agli idealisti, alcuni dei quali nutrivano anche qualche velleità utopistica un po’ strampalata, vi erano combattenti animati da una forte spinta rivoluzionaria che provavano a esibire una forza che non avevano. Ciò che li accomunava era il rigore morale con cui affrontavano l’impegno politico, mossi dalla speranza di poter contribuire a un cambiamento profondo della realtà in cui vivevano.

Questo gruppo di ostinata oppositore antifascista era particolarmente attivo in questa città dove, a differenza di gran parte del paese, il benessere era relativamente diffuso grazie allo sviluppo industriale di alcuni settori strategici, come l’oreficeria e la calzaturiera. Ne facevano parte figure come Aviotti, Bellone, Casolati, Corona, Dabene, Ferraris, Genzone, Guidi, Rigoni, Sforzini, Vaccario, Vaiarelli e Visconti, erano perlopiù educati e dialoganti, ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze e di convinzioni.

Mancava, probabilmente, una solida unità ideologica, un corpus di principi condivisi e coerenti che guidasse le loro azioni. Invece, per alcuni, a legarli era piuttosto un vago e diffuso retrogusto di stampo leninista, una generica adesione ai principi rivoluzionari del marxismo-leninismo, declinata comunque in modo spesso superficiale e poco approfondito. Molte volte, in maniera forse incauta, tra concezioni materialiste e altre estetiche, pontificavano sul nulla e concludevano con il nulla di fatto. Il giudizio etico era però per tutti estremamente semplice e ovvio: gli avversari sono cattivi e malvagi per definizione, i nostri sono buoni e moralmente superiori.

Fu con questo bagaglio di convinzioni, contraddizioni e speranze che molti affrontarono la Resistenza e la Seconda guerra mondiale, convinti che una soluzione positiva nei riguardi del fascismo, la sua definitiva sconfitta e la liberazione dell’Italia, sarebbe inevitabilmente scaturita proprio da quell’immane conflitto globale.

(SEGUE)

TORNA AL BLOG DI PIER GIORGIO MAGGIORA 

Articoli correlati
Leggi l'ultima edizione