Valenza e la Seconda guerra d’indipendenza
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Il Risorgimento Italiano, un’epopea complessa e sfaccettata, si presenta come un affresco intriso di luci e ombre. È una storia luttuosa, segnata da perdite e sacrifici inimmaginabili, ma anche gloriosa, illuminata da atti di eroismo e aspirazioni nobili. Coraggiosa, per l’audacia di chi osò sfidare l’ordine costituito, ma anche brutale, testimone di violenze e repressioni spietate. Bizzarra, per le contingenze e gli intrecci politici che la caratterizzarono, e perfino spregevole, a causa di tradimenti, intrighi e meschinità. L’idealizzazione di un’Italia unita, la convinzione che la semplice unione delle disparate realtà territoriali potesse sanare secoli di divisioni e disuguaglianze, si rivelerà, con il passare del tempo, un’illusione pericolosa e gravida di conseguenze inattese. Le masse rurali, schiacciate dalla miseria e dall’ignoranza, e, in genere, le plebi cittadine, relegate ai margini della vita politica e sociale, resteranno spettatrici silenziose del moto risorgimentale, non saranno concretamente integrate nello stato unitario, mantenendo intatte le loro sofferenze e frustrazioni.
Valenza, una piccola comunità che all’epoca contava circa ottomila anime, osservava con apprensione lo scenario incerto del futuro, intravedendo dietro la retorica patriottica la persistenza di antiche problematiche. La città, posta in una posizione strategica lungo il corso del Po, sapeva di aver sempre percorso una china pericolosa, indipendentemente dalla sua volontà, di essere stata trasfigurata di continuo nel corso dei secoli, poiché coinvolta nelle incessanti spartizioni territoriali e nelle contese tra le potenze nazionali ed europee, a causa della sua posizione geografica. Il fiume, imponente e maestoso, è stato il suo vero riparo, la sua fonte di sostentamento, il suo soffio vitale, un guscio protettivo che l’ha sovente salvaguardata dalle incursioni nemiche e dalle calamità naturali. Ma il fiume era anche un confine, una linea di demarcazione che la separava da altri mondi, da altre realtà, alimentando un senso di isolamento e di precarietà.
L’alba del 1859 si manifestava cupa e nebbiosa in ogni parte della penisola italiana, annunciando tempesta. C’era perfino chi ne faceva l’elogio e la riteneva inevitabile. A Roma, il cuore pulsante della cristianità, vi era un fermento palpabile contro il governo pontificio, che si reggeva a mala pena, delegittimato agli occhi del popolo e minato dalle lotte intestine. Il potere temporale del Papa appariva sempre più anacronistico e inadeguato alle esigenze di una società in rapida evoluzione. A Napoli, capitale del regno delle Due Sicilie, il grido disperato del popolo saliva alla reggia del re Borbone, un sovrano chiuso nel suo palazzo dorato, incapace di comprendere le sofferenze del suo popolo. La potenza di un tempo, che aveva reso il regno uno dei più floridi d’Europa, barcollava sotto il peso di una corruzione dilagante e di un sistema sociale profondamente ingiusto. I duchi e gli arciduchi che governavano i piccoli stati dell’Italia centrale, arroccati nei loro privilegi e indifferenti alle richieste di cambiamento, avvertivano la ribellione popolare che cresceva, alimentata dalla miseria e dall’oppressione. L’opera costante e silenziosa dei carbonari, una società segreta animata da grandi passioni e ideali di libertà e indipendenza, penetrava nelle pieghe della società, affascinava e conquistava gli animi e i cervelli, seminando i germi della rivolta e preparando il terreno per l’unificazione nazionale. La scintilla, pronta ad accendersi, attendeva solo il momento propizio per incendiare l’intera penisola.
Il fervore unitario, un fuoco che divampava in gran parte della penisola, non coinvolgeva però tutti indistintamente. Vi erano sacche di resistenza, di cautela, o semplicemente d’indifferenza. Ma quel che è certo è che l’Italia, sull’orlo della Seconda guerra d’indipendenza, era un terreno arroventato, pronto a esplodere. La tensione si tagliava con un coltello, l’aria vibrava di speranze e timori. Anche a Valenza, una cittadina stretta nella morsa del suo quieto vivere, si avvertiva il profumo acre della belligeranza. Nonostante la relativa distanza dai grandi centri di agitazione politica, molti valenzani si sentivano parte di quel comune anelito di libertà e unità. Un sentimento condiviso, espresso attraverso una solidarietà tanto spirituale quanto politica, fatta di sottoscrizioni, di riunioni clandestine, di sguardi complici e molta retorica incendiaria. Insomma, era partita la corsa contro il tempo, occorreva fare presto.
Il segnale tanto atteso, la scintilla che avrebbe acceso la miccia, arrivò il 10 gennaio 1859. A Torino, nella solennità della sala parlamentare, Re Vittorio Emanuele II inaugurava la nuova legislatura dinanzi ai deputati e ai senatori del Parlamento sardo-piemontese. Il suo discorso, audace e vibrante, rompeva gli indugi, si faceva interprete del sentimento popolare. Tra le parole, una frase, incisiva e chiara come una sentenza, destinata a rimanere impressa nella memoria collettiva: «Non siamo insensibili al grido di dolore, che da tante parti d’Italia si leva verso di noi».
Quelle parole, pronunciate con la forza e la convinzione di un sovrano che si sentiva investito di una missione, risuonarono come un tuono in tutta la penisola. Ebbero l’effetto di un vento impetuoso che alimenta le braci sopite, risvegliando la speranza e rinvigorendo la determinazione. Il giornale locale «Avvisatore alessandrino», portavoce della provincia e attento osservatore degli umori popolari, il 26 febbraio 1859, cavalcando l’onda dell’entusiasmo, pubblicò un articolo dal tono incoraggiante e patriottico.
Con un fremito di riscossa, il giornale scriveva: «La guerra che si intraprenderà, dobbiamo ritenere, che è nazionale pei lombardo-veneti, pei romani, pei siciliani, napoletani, toscani, modenesi, parmigiani, non deve cessare d’esser tale pel Piemonte: quindi se quelli si commuovono apertamente, se mostrano quello che desiderano e che vogliono, perché dai piemontesi non si farà altrettanto?». Un appello accorato, un invito esplicito a non rimanere inerti, a schierarsi apertamente per la causa nazionale, a dimostrare che il Piemonte non era solo un regno, ma il cuore pulsante di un’Italia che sognava di rinascere unita e libera. L’eco di quelle parole si diffuse rapidamente, alimentando il dibattito e spronando all’azione. La guerra era ormai alle porte, e il destino dell’Italia si sarebbe deciso sul campo di battaglia.
Il 13 aprile 1859 rimane impresso nella memoria degli abitanti di Valenza come un giorno denso di presagi e ansie. Le loro speranze di un’Italia unita e indipendente fermentavano, alimentate dai discorsi appassionati di patrioti e dalle notizie, spesso frammentarie, che giungevano da Torino. Quel giorno, però, la realtà della guerra imminente si manifestò in modo inequivocabile: il rombo cupo e prolungato del cannone proveniente dalla Cittadella di Alessandria. Le esercitazioni militari in corso, sentite fin nel cuore di Valenza, non lasciavano spazio a dubbi: il Paese era sull’orlo di un conflitto che avrebbe potuto ridisegnare i confini e il destino del popolo. Alcuni, però, alimentavano lo scontro per convertire un certo dissenso presente.
L’attesa spasmodica culminò il 23 aprile 1859, quando l’ultimatum dell’Austria, consegnato a Cavour, sancì l’inevitabilità della guerra. La diplomazia aveva fallito e le armi si preparavano a parlare. Le ostilità si aprirono ufficialmente il 27 aprile, e la situazione strategica si presentò subito critica per il Regno di Sardegna. La II Armata austriaca, imponente e ben equipaggiata, si era concentrata con i suoi cinque corpi d’armata tra Bereguardo e Pavia, minacciando direttamente il cuore del Piemonte e procedendo sul terreno che a loro era più propizio: la prova di potenza. A fronteggiare questa forza preponderante, solo sei divisioni piemontesi, distribuite strategicamente per proteggere le principali città e le vie di comunicazione. Il grosso delle truppe si trovava posizionato ad Alessandria e, soprattutto, a Valenza, sulla sponda destra del Po, una posizione chiave per la difesa del territorio.
La Cittadella di Alessandria, con la sua massiccia struttura difensiva, rappresentò un fulcro cruciale nella strategia piemontese. La sua presenza condizionò pesantemente le scelte dell’esercito austriaco, che si trovò costretto a considerare con attenzione la possibilità di un assalto diretto. Pertanto, il piano austriaco si concentrò sull’isolamento di Alessandria, tagliando le sue linee di rifornimento e comunicazione con Casale Monferrato e Genova. Un’operazione riuscita avrebbe permesso di accerchiare e conquistare la città, indebolendo significativamente la resistenza piemontese.
Il 27 aprile, la II Armata austriaca, sotto il comando del generale Schlick, iniziò la sua avanzata verso Valenza. Tuttavia, la marcia si rivelò sorprendentemente lenta. Le difficoltà logistiche, unite alle avverse condizioni meteorologiche, ostacolarono il movimento delle truppe. Il fiume Ticino fu attraversato solo il 30 aprile, un ritardo significativo che offrì ai piemontesi un prezioso tempo per prepararsi alla difesa. La pioggia incessante aveva trasformato i campi in pantani, rallentando i carriaggi e rendendo faticosa la progressione dei soldati. Inoltre, il Po era in piena, rendendo pericoloso e difficile l’attraversamento. Schlick, giunto sulla riva del fiume, prese una decisione controversa: ordinò un bombardamento continuo di Valenza e Bassignana.
L’obiettivo era fiaccare il morale dei piemontesi, terrorizzare la popolazione civile e creare una breccia nelle difese. Tuttavia, questo attacco indiscriminato ebbe l’effetto di rafforzare la determinazione dei difensori, che si prepararono a resistere con ogni mezzo. La situazione si sbloccò finalmente il 1° maggio. In quel giorno cruciale, le prime avanguardie dell’esercito francese iniziarono ad arrivare in Piemonte, portando con sé un’ondata di entusiasmo e speranza. L’alleanza franco-piemontese si concretizzava sul campo di battaglia, offrendo una prospettiva di vittoria fino a quel momento incerta.
Ma non fu solo l’arrivo dei soldati francesi a galvanizzare gli animi. Nello stesso giorno, giunse ad Alessandria anche il re Vittorio Emanuele II, la cui presenza incarnava la determinazione del Regno di Sardegna a difendere la propria indipendenza e a realizzare il sogno di un’Italia unita. La sua presenza, un simbolo di coraggio e leadership, rafforzò il morale delle truppe e della popolazione civile, pronte a resistere all’invasore austriaco.
La scena si apre con una figura imponente, quella del re, che, in sella al suo destriero, si dirige con passo sicuro verso la Cittadella. L’aria è carica di tensione, presagio degli eventi imminenti. Nella Cittadella di Alessandria, passa in rivista i granatieri di Sardegna, figure austere e imponenti nelle loro divise scarlatte, simboli di coraggio e lealtà. Il sovrano scruta i loro volti, cerca in essi la determinazione necessaria per la battaglia che si profila all’orizzonte. Terminata la rassegna, la sua cavalcatura lo conduce a San Salvatore, un borgo che sembra quasi trattenere il respiro in attesa del destino. Qui, elegge Villa Pona a suo quartiere generale, un centro nevralgico da cui dirigerà le operazioni. I granatieri, obbedendo agli ordini impartiti, sono avviati da San Salvatore verso Casale, un movimento strategico che preannuncia l’inizio delle ostilità.
Al fianco del re, figure di spicco dell’esercito sono: il capo di stato maggiore Morozzo della Rocca, con la sua aria pensierosa e lo sguardo acuto, e il maresciallo di Francia François Marcellin Certain de Canrobert, rappresentante del prezioso aiuto alleato, comandante del III Corpo d’Armata francese, le prime truppe di rinforzo giunte in soccorso. La sua presenza testimonia la solidarietà franco-piemontese contro l’oppressore austriaco. La Seconda Guerra d’Indipendenza, una pagina cruenta della storia italiana, una lotta per l’unità e la libertà, si annuncia imminente. La sua scintilla sta per accendersi, sarà combattuta tra il 29 aprile 1859 e l’11 luglio 1859, e l’epicentro di questo dramma bellico si localizza inizialmente in questi luoghi, precisamente sul Pont d’fer, un ponte che diverrà testimone di sangue e sacrificio.
Valenza, situata in una posizione strategica, si erge come una delle linee difensive cruciali del Piemonte, la frontiera di guerra dove si consumeranno alcuni scontri. La città si prepara alla battaglia: frenetiche, sono costruite difese a protezione del ponte ferroviario. Il ponte stradale di barche, strategicamente collocato nell’attuale regione Vecchio Porto, è invece presidiato da potenti pezzi di artiglieria, pronti a sputare fuoco contro l’avanzata nemica. Tutta la riva destra del Po è saldamente occupata da 35mila soldati piemontesi, pronti a difendere la loro terra con ogni mezzo. Sul lato sinistro, una minaccia incombente: circa 100mila soldati austriaci, un’armata imponente che tenta, invano, di attraversare il fiume, trovando una strenua resistenza.
Parte della popolazione, preda dell’angoscia e del terrore, ha abbandonato la città, cercando rifugio al di fuori delle mura, in precari luoghi, dove s’intrecciano speranze e paure. Alcuni edifici sono stati requisiti e trasformati in caserme, ospitando i soldati. Anche i luoghi di culto e preghiera, sono stati spogliati della loro sacralità e convertiti in stalle e magazzini, un segno tangibile del profondo sconvolgimento portato dalla guerra. Un velo di tristezza e incertezza avvolge Valenza, in attesa del suo destino. Peccato che per i valenzani uno spavento al giorno non tolga la guerra di torno, ma anzi l’avvicini.
Per fronteggiare l’incombente minaccia austriaca e guadagnare tempo in attesa del tanto sperato arrivo delle truppe francesi, cruciali per la difesa del territorio piemontese, Valenza è stata strategicamente fortificata e presidiata da diverse unità del Regio Esercito Sardo, con una propaganda di guerra senza freni inibitori. A difesa delle mura cittadine, sono state dislocate la 16ª e la 18ª batteria di artiglieria sarda, pronte a rispondere al fuoco nemico con i loro cannoni. A supporto della loro potenza di fuoco, è presente anche il 12° reggimento fanteria della Brigata Casale, incaricato di proteggere i punti nevralgici della città e di sventare eventuali tentativi di sfondamento. Per garantire una difesa più ampia e proteggere le alture circostanti, l’8° reggimento bersaglieri è stato posto più a monte, pronto a intervenire rapidamente in caso di necessità e a fornire fuoco di copertura alle truppe dislocate in città.
In modo offensivo, il contingente austriaco il 29 aprile 1859 rispose all’ultimatum sabaudo con l’attraversamento del fiume Ticino, aprendo, di fatto, la Seconda guerra d’indipendenza italiana. Il 3 maggio 1859, le forze austriache, guidate dal generale Giulay, dopo essersi consolidate a Terranova, diedero inizio a un’aggressiva operazione di ricognizione offensiva lungo la sponda sinistra del fiume Po. L’obiettivo principale era valutare la consistenza delle difese piemontesi e individuare i punti più vulnerabili per un eventuale attraversamento del fiume. L’attacco culminò in un tentativo di passaggio sulla riva destra vicino a Frassineto, durante il quale gli austriaci scatenarono un intenso fuoco di artiglieria e un fitto fuoco di moschetteria e razzi contro gli avamposti piemontesi. Nonostante la violenza dell’attacco, i soldati piemontesi, ben posizionati e determinati a difendere il proprio territorio, respinsero con successo l’offensiva austriaca, infliggendo perdite significative al nemico.
Il giorno successivo, il 4 maggio 1859, gli austriaci cambiarono strategia e presero di mira direttamente la città di Valenza. Installando batterie di artiglieria sul ponte ferroviario che attraversava il Po, iniziarono un pesante bombardamento sulla città. L’obiettivo strategico di quest’azione era chiaramente quello di interrompere le comunicazioni e dividere Casale e Alessandria, considerate le due principali fortezze del sistema difensivo sabaudo. Il bombardamento durò per ben tre ore, durante le quali Valenza subì ingenti danni.
I nostri bersaglieri e i nostri artiglieri contrattaccarono e ripresero il ponte, scacciando gli austriaci, che, prima di allontanarsi, sfasciarono le porte, le finestre e i solai dei due casotti che si trovavano all’estremità del ponte e fecero esplodere un pilone e le due arcate; in questa occasione, persero la vita il capitano d’artiglieria Roberto Roberti, colpito in fronte da un cecchino, e il caporale Albini. Seguirono altri danneggiamenti a boschi, prati, al ponte di barche e ai mulini sul fiume.
L’eco degli spari si propagò per le campagne, accompagnata dal rumore sordo di alberi abbattuti, prati martoriati e del ponte di barche, cruciale via di comunicazione, danneggiato dalle schegge. I mulini sul fiume, un tempo cuori pulsanti della vita locale, divennero bersagli, testimoni silenti della distruzione che incombeva.
Tuttavia, la strenua difesa dei bersaglieri, coraggiosamente appoggiati dalla batteria di artiglieria collocata a difesa della città, permise di respingere l’attacco austriaco e di preservare l’integrità della linea difensiva piemontese. Questo successo, seppur limitato, infiammò gli animi e diede un’iniezione di fiducia alle truppe sarde, convinte della possibilità di resistere fino all’arrivo dei rinforzi francesi e poter così combattere ad armi pari.
Nei giorni successivi, il 4 e 5 maggio, l’angoscia crebbe con l’arrivo di notizie allarmanti: significativi contingenti austriaci avevano varcato il fiume Sesia. Il timore serpeggiava tra la popolazione e i comandi militari: l’obiettivo primario degli austriaci era l’imponente forte della Testa di Ponte di Casale. La difesa di questa strategica roccaforte divenne prioritaria, e in una corsa contro il tempo, fu ordinato l’afflusso della brigata dei Cacciatori delle Alpi, guidata dall’iconico Garibaldi, uomini temprati e pronti al sacrificio.
Le mosse nemiche confermarono i timori: truppe austriache, provenienti da Vercelli, occuparono Caresana, Villanova, Balzola e Trino, imponendo pesanti requisizioni alla popolazione locale, già provata dalla guerra. L’avanzata austriaca si spinse pericolosamente vicino al forte Testa di Ponte, ma, inaspettatamente, le truppe invasori cambiarono direzione, virando velocemente verso Vercelli, che cadde sotto il loro controllo.
Di fronte a questa situazione fluida e pericolosa, il generale Cialdini prese una decisione strategica: piazzare la brigata dei Cacciatori delle Alpi a Pontestura, sbarrando la strada verso ulteriori conquiste. L’ultimo scontro, carico di tensione e incertezza, si consumò l’8 maggio. Alle prime luci dell’alba, alle 4 del mattino, una sentinella diede l’allarme: un contingente austriaco, stimato in circa 1700 uomini, era in movimento, partendo dalle posizioni tra Villanova e Balzola si dirigeva verso il forte della testa di ponte. Si ipotizzò una missione di ricognizione, un tentativo di sondare le difese.
Contro questa forza in avvicinamento, si schierarono con coraggio la brigata dei Cacciatori delle Alpi e il 5° battaglione bersaglieri, pronti a difendere il territorio. La battaglia infuriò per tre intensi quarti d’ora, con il fragore delle armi che riecheggiava nella pianura e il contributo devastante dell’artiglieria austriaca che piombava sulle linee italiane.
La giornata, iniziata con un’incertezza palpabile, trovò una svolta improvvisa grazie all’audace carica alla baionetta orchestrata dal capitano Carlo De Cristoforis Capitano comandante della 3ª compagnia del 2° reggimento dei Cacciatori delle Alpi.
Il suo attacco, fulmineo e impetuoso, scompaginò le linee austriache, gettandole nel caos. Gli uomini, galvanizzati dall’esempio del loro comandante, si lanciarono all’inseguimento con rinnovato vigore. La cavalleria, in particolare i cavalleggeri di Alessandria, si distinse nell’incalzare i nemici in rotta, spingendoli fin oltre le porte di Villanova, costringendoli a una precipitosa ritirata. Tuttavia, la vittoria, seppur significativa, non esprimeva la fine della battaglia.
L’eco degli spari si era appena spento che già giungevano preoccupanti notizie: rinforzi austriaci, accompagnati da ingenti quantitativi di materiali da costruzione, stavano affluendo verso Candia. Il loro obiettivo era chiaro: erigere un ponte sul Po minacciando direttamente il cuore del Piemonte in questa zona.
Dalle postazioni di osservazione strategicamente dislocate a Frassineto, i piemontesi tenevano sotto controllo i movimenti nemici. La situazione era critica. Non potevano contare sull’esperienza e la disciplina degli uomini del generale Cialdini, precedentemente dislocati e ormai rientrati alle loro basi. Un’azione convenzionale era fuori discussione. Serviva un’iniziativa audace, un’operazione chirurgica che potesse infliggere un duro colpo al nemico senza impegnare forze ingenti. Si optò, quindi, per una vera e propria azione da commando, un’impresa disperata affidata al coraggio di pochi eletti.
Il 7 maggio, in un’atmosfera carica di tensione e di patriottismo, furono selezionati quattro volontari tra le fila dei bersaglieri, uomini forgiati dalla disciplina e animati da un’incrollabile fede nella causa. Carlo Saino, originario di Borgolavezzaro, Teodoro Vitalini, proveniente dalle sponde del Garda a Salò, Claudio Chiappaz, un savoiardo di Thaner, e Giuseppe Marino, da Costigliole Saluzzo, accomunati da un’eccezionale abilità nel nuoto, furono i prescelti per la missione. Erano consapevoli dei rischi, ma il pensiero della patria in pericolo li spingeva oltre ogni timore.
Armati di un carico di materiale incendiario ed esplosivo, sufficiente a creare seri danni, avrebbero dovuto attraversare a nuoto il Po, un fiume ingrossato dalle abbondanti piogge primaverili, trasformato quasi in un torrente impetuoso e insidioso. La loro missione era chiara: infiltrarsi nelle retrovie nemiche e sabotare le loro scorte, in particolare i materiali destinati alla costruzione del ponte.
L’impresa si rivelò subito più ardua del previsto. Saino, sopraffatto dalla furia delle acque, annegò, sacrificando la sua vita per la patria. Vitalini, trascinato a valle dalla corrente vorticosa, fu salvato in extremis dai suoi commilitoni, miracolosamente giunti in suo soccorso. Chiappaz e Marino, dimostrando un coraggio e una determinazione senza pari, lottarono contro la corrente, sfidando la furia del fiume, e alla fine raggiunsero l’altra sponda, esausti ma pronti a portare a termine la loro missione. Una volta a terra, si mossero con cautela, sfruttando l’oscurità della notte per avvicinarsi al deposito di materiali nemico. Piazzarono le cariche esplosive e innescarono gli incendi, quindi si rituffarono nelle acque gelide del Po, mentre le prime esplosioni squarciavano il silenzio della notte. Il deposito nemico, avvolto dalle fiamme e scosso dalle deflagrazioni, divenne un inferno di fuoco e fumo.
La missione era compiuta. Chiappaz e Marino, esausti ma vivi, riuscirono a raggiungere la riva opposta, accolti come eroi dai loro commilitoni, consapevoli di aver contribuito in maniera decisiva a sventare i piani del nemico. Il loro sacrificio, insieme alla memoria di Saino, sarebbe rimasto per sempre impresso negli annali della storia.
Il quartier generale piemontese con Vittorio Emanuele II, dal 1° maggio era a San Salvatore nella cascina Pona, in attesa dell’esercito francese, e poi, dall’11 maggio, a Occimiano nella residenza del marchese Da Passano.
Gli austriaci, come un predatore circospetto, continuavano a saggiare la zona a est di Alessandria, cercando un varco nelle difese piemontesi. Re Vittorio Emanuele II, osservatore attento e stratega navigato, percepiva la necessità di fortificare ulteriormente le posizioni chiavi. Impartì quindi ordini perentori: la Cittadella di Alessandria, fulcro strategico della regione, doveva essere trasformata in una fortezza inespugnabile. Furono incrementate le forniture di viveri e foraggio, calcolate con precisione per sostenere una guarnigione di sessantamila uomini e ottomila cavalli per un periodo di trenta giorni, preparando la città a un eventuale assedio. L’attesa per l’arrivo dei francesi, promessa di rinforzo e di cambio di rotta, permeava l’aria di speranza e d’incertezza in una matassa malamente ingarbugliata.
Inizialmente, il conflitto aveva visto le forze piemontesi costrette sulla difensiva, trincerate dietro la linea difensiva che collegava Casale, Valenza e Alessandria, una barriera fragile contro la soverchiante potenza austriaca. L’ombra della sconfitta si allungava, ma la promessa di alleanza francese alimentava la resilienza. Finalmente, il giorno tanto atteso giunse. Il 14 maggio, alle ore sedici, un’atmosfera elettrica pervase Alessandria.
L’Imperatore Napoleone III, figura leggendaria e portatore di speranza, fece il suo ingresso trionfale alla stazione ferroviaria. Scortato da una guardia d’onore impeccabile, salì a cavallo e, con andatura lenta e maestosa, si diresse verso il palazzo reale, l’imponente edificio oggi adibito a Prefettura. Il suo passaggio fu salutato da un’esplosione di giubilo popolare: dalle finestre, un tripudio di fazzoletti svolazzanti colorava l’aria, mentre petali di fiori profumati cadevano come una pioggia benedetta. Le vie della città, addobbate a festa, si trasformarono in un tripudio di bandiere tricolori, archi decorati con ghirlande e vasi traboccanti di fiori multicolori. Giunto in piazzetta della Lega, l’Imperatore, con un gesto solenne, si fermò. Scoprendosi il capo in segno di rispetto, ammirò il busto marmoreo dedicato a Napoleone I, suo illustre predecessore, un monumento che, ironia della sorte, sarebbe inspiegabilmente scomparso qualche tempo dopo, lasciando dietro di sé un alone di mistero quasi con sprezzo del grottesco. Mentre la folla acclamava Napoleone III, un evento inaspettato aggiunse altra eccitazione alla giornata. Quasi in incognito, come un’ombra discreta, Re Vittorio Emanuele II giunse al palazzo reale. La sua presenza, sebbene non annunciata, fu accolta con un’ovazione ancora più vibrante, un’esplosione di affetto e lealtà. Tutte le autorità locali, con espressioni di mielosa deferenza e con squisito fair play collettivo, lo accolsero e lo circondarono, in un’atmosfera di ritrovata fiducia e speranza per il futuro del Regno di Sardegna. La combinazione delle figure di Napoleone III e Vittorio Emanuele II prometteva una svolta decisiva nel conflitto, un nuovo capitolo nella storia del Risorgimento italiano.
Il 15 maggio 1859, un giorno intriso di aspettative e presagi per il futuro dell’Italia, l’imperatore Napoleone III, con la sua aura di potere e ambizione, giungeva a Valenza. Aveva formalmente assunto il comando dell’esercito franco-piemontese, una coalizione forgiata nel crogiolo delle aspirazioni di indipendenza italiana e degli interessi strategici francesi. A Valenza, ad attenderlo, si trovava la divisione del generale Bourbaki, pronta a muovere i primi passi di una campagna destinata a segnare un’epoca.
Finalmente, il momento tanto atteso si rese concreto: Vittorio Emanuele II, il re sabaudo, s’incontrò con Napoleone III, l’imperatore francese, un incontro carico di significato e d’implicazioni. Il luogo prescelto per questo storico vertice fu il castello di Giarole, le cui antiche mura avevano assistito a innumerevoli vicende umane. In quel momento, Napoleone III, mosso forse da sincera simpatia o da calcolato interesse, «amava ancora il Piemonte senza se e senza ma», almeno apparentemente. La promessa di un’alleanza salda e di un impegno risoluto per la causa italiana sembrava un solido fondamento su cui costruire un futuro migliore.
Ma la cascina Pona, prima del fasto del castello di Giarole, aveva ospitato un altro evento cruciale. La notte dell’8 maggio 1859, un importante convegno notturno aveva riunito Vittorio Emanuele II e l’indomabile Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi, con il suo carisma travolgente e la sua fede incrollabile nell’unità d’Italia, era stato investito dal re di ampia facoltà d’azione, un riconoscimento del suo valore e della sua capacità di infiammare gli animi. Ai suoi cacciatori delle Alpi, truppe irregolari ma animate da un fervore patriottico senza pari, fu affidato il compito di aprire la strada all’esercito regolare e di seminare la ribellione nei territori occupati.
Il periodo che seguì fu una spirale di violenza e inganno, una «guerra fatta di sangue e di bugie», come la definirono alcuni testimoni dell’epoca. Il teatro delle operazioni si spostò progressivamente dalla zona circostante, portando con sé il fragore dei cannoni e le grida dei feriti.
L’eco della battaglia di Montebello, del 20 maggio 1859 (il primo evento di una certa rilevanza della Seconda guerra d’indipendenza italiana e la prima vittoria dei franco-piemontesi sugli austriaci), seppur segnata dal valore eroico e la medaglia d’argento tributata ai tre eroi del 7 maggio e al loro sfortunato compagno, però, non aveva sopito le tensioni nella nostra zona.
Infine, le vittorie di Magenta e Solferino, conquistate con coraggio e sacrificio, sembrarono spazzare via le nubi dell’oppressione e avvicinare il tanto agognato sogno di un’Italia unita. Tuttavia, le speranze di Vittorio Emanuele II e del conte Camillo Benso di Cavour, l’abile tessitore della politica piemontese, di cacciare definitivamente gli austriaci dalla penisola, s’infransero contro la cruda realtà del calcolo politico.
Napoleone III, con un «trasformismo furbesco» che lasciava trasparire i suoi veri intenti, pose uno stop improvviso e inaspettato ai combattimenti. Le ragioni di questa decisione rimanevano avvolte nel mistero: timore di un’eccessiva espansione piemontese, pressioni diplomatiche, o forse un ripensamento strategico dettato da interessi superiori. In ogni caso, la brusca frenata imposta dall’imperatore francese gettò un’ombra di delusione e amarezza sul futuro dell’Italia, lasciando intravedere un’unità incompleta e compromessa.
La «guerra fatta di sangue e di bugie» aveva mietuto le sue vittime, non solo sui campi di battaglia, ma anche nel regno delle speranze tradite. La Seconda guerra d’Indipendenza, che prometteva di riscrivere la mappa politica della penisola italiana, si concluse con un epilogo amaro per i patrioti. L’Austria, pur sconfitta in battaglia, acconsentì a cedere ai piemontesi solamente la Lombardia, mantenendo saldamente il controllo sul Veneto, regione di cruciale importanza strategica ed economica. Il sogno di un’Italia unita e liberata dal dominio austriaco, un’aspirazione che sembrava sul punto di concretarsi, svanì con una rapidità sconcertante, lasciando un retrogusto d’incompiuto e sollevando dubbi sulla reale esistenza di tale visione, forse nient’altro che una declamazione retorica priva di fondamento concreto.
Dietro questo brusco voltafaccia, si celavano intricate manovre diplomatiche condotte all’insaputa dello stesso Vittorio Emanuele II. Napoleone III, l’imperatore francese che fino a quel momento aveva sostenuto con le armi la causa italiana, improvvisamente manifestò il desiderio di interrompere una campagna militare che si era rivelata, fino a quel momento, più che vittoriosa. Anelava a fare ritorno al di là delle Alpi, spinto dall’urgente necessità di siglare una pace con l’Austria, a qualsiasi costo. Ad alimentare questa fretta inconsueta, intervenne la diplomazia russa, che, in un abile gioco di alleanze, suggerì la mediazione dell’Inghilterra per facilitare la risoluzione del conflitto.
A Villafranca, precisamente nella dimora di Gandini Morelli, furono stabiliti i termini dell’imminente accordo di pace, che furono poi formalizzati a Zurigo il 10 novembre. I patti concordati delineavano un futuro incerto e controverso per l’Italia. In particolare, si prevedeva: 1) la formazione di una confederazione italiana, una sorta di lega di stati, con a capo lo stesso Pontefice, una soluzione che suscitò forti resistenze tra i sostenitori dell’unificazione nazionale; 2) la cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia, la quale a sua volta l’avrebbe ceduta a Vittorio Emanuele. Erano escluse le fortezze del quadrilatero di Peschiera, Verona, Mantova e Legnano; 3) il Veneto restava all’Austria, ma entrava nella confederazione italiana; 4) restaurazione del granducato di Toscana e del ducato di Modena; 5) suggerimento dell’Austria e della Francia al Papa d’introdurre riforme nello Stato pontificio.
Questo passaggio indiretto, pur garantendo l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, evidenziava la natura complessa e ambigua degli interessi in gioco e la dipendenza del Piemonte dalla volontà delle potenze straniere. La soluzione, lungi dal soddisfare le aspirazioni unitarie, prefigurava una sistemazione geopolitica fragile e precaria, destinata a generare ulteriori tensioni e conflitti.
Tutto questo vortice di eventi precipitava in un momento storico cruciale, quando la stella di Garibaldi brillava fulgida, reduce da vittorie che lo proiettavano quasi alle porte di Trento, con il Trentino ansioso di unirsi al nascente regno. Nel frattempo, il Granduca Leopoldo II, sentendo scricchiolare il proprio potere, aveva frettolosamente abbandonato Modena, lasciandosi alle spalle un ducato in fermento. Similmente, la Duchessa Maria Luisa, consapevole dell’imminente collasso del suo dominio, era fuggita da Parma, mentre il cardinale, delegato pontificio, aveva fatto lo stesso da Bologna, lasciando le Romagne in balìa di un’ondata di fervore patriottico. In Toscana, Bettino Ricasoli, figura di spicco del Risorgimento, era acclamato dittatore in nome dell’Italia unita, incarnando la volontà popolare di un cambiamento radicale. Parimenti, Luigi Carlo Farini assumeva la guida dell’Emilia, una regione pulsante di desiderio di libertà. La Toscana e l’Emilia, unite da un destino comune e da un’aspirazione condivisa, si stringevano in una lega militare, un patto difensivo volto a proteggere la loro autonomia e a sostenere la causa italiana, affidando a Garibaldi il comando supremo delle loro forze armate.
Ma, dietro la facciata di unità nazionale e di eroismo risorgimentale, serpeggiavano correnti sotterranee che col patriottismo c’entravano poco o nulla, solo interessi particolari e ambizioni personali. Una cricca, composta d’individui animati da motivazioni ben distanti dall’amor patrio idealizzato, che tramava nell’ombra, pronta a sfruttare la situazione a proprio vantaggio.
Questi intrighi e manovre politiche, spesso celati dietro proclami altisonanti, non sfuggivano all’attenzione della gente. La popolazione valenzana, pur distante dai centri nevralgici del potere, osservava con crescente preoccupazione e scetticismo la rapida successione degli eventi, stupefatta dalla contorsione di tali avvenimenti e dalla verità che si tentava di nascondere con roboanti dichiarazioni di patriottismo. Un senso di giusta indignazione s’impadronì dei valenzani, una rabbia latente che covava sotto la cenere della rassegnazione.
In un moto di ribellione spontanea, il popolo dichiarò traditore e spergiuro l’imperatore di Francia, reo, ai loro occhi, di aver tradito le promesse di sostegno all’Italia. A testimonianza del clima di tensione e risentimento che pervadeva tutti, in alcune vetrine delle botteghe valenzane, si espose audacemente il quadro di Felice Orsini, l’italiano che, il 14 gennaio 1858, aveva attentato alla vita di Napoleone III, un gesto disperato, interpretato da alcuni come un atto di eroismo e di vendetta per la pelosa ipocrisia e le ingiustizie subite.
La crisi politica interna si acuiva ulteriormente. Cavour, architetto della politica piemontese e uomo chiave del processo di unificazione, si trovava in una profonda crisi coniugale metaforica con il re Vittorio Emanuele II, un dissidio nato dalla profonda divergenza di opinioni sull’armistizio di Villafranca. In segno di protesta contro quella che considerava una resa inaccettabile, Cavour rassegnava le dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri, un gesto clamoroso che scuoteva le fondamenta del governo e gettava un’ombra d’incertezza sul futuro dell’Italia. Tutto il sangue sparso sui campi di battaglia e tutte le vite sacrificate in nome dell’ideale di una nazione unita, si consideravano, in quel momento di smarrimento e disillusione, un inutile sacrificio, una tragica beffa del destino, anche perché i conflitti si sa sempre come cominciano, ma nessuno è mai certo di come finiscono e la sincerità dei politici appartiene principalmente alla loro coscienza.
La strada verso l’unificazione sembrava nuovamente irta di ostacoli e incognite. L’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna segnò una svolta cruciale, spalancando nuove prospettive di sviluppo economico per Valenza. Si aprì una nuova fase d’intensi scambi commerciali e di modernizzazione che, apparentemente, prometteva prosperità. Tuttavia, ben presto, un’onda d’indifferenza sembrava travolgere gli animi. Troppo spesso, si preferì chiudere gli occhi di fronte ai cambiamenti in atto, dimenticando i valori fondanti della patria. Un velo di egoismo e di individualismo calò sulla società locale, relegando l’amor di patria in un angolo buio della memoria. Ma la storia, implacabile, avrebbe presto ricordato a tutti il prezzo della libertà.
Nel turbine della Seconda Guerra d’Indipendenza, un tributo di sangue valenzano fu versato sul campo di combattimento. Nella sanguinosa e decisiva battaglia di San Martino, combattuta il 24 giugno 1859 nei pressi del suggestivo Lago di Garda, caddero valorosi figli di Valenza: Massimo Barbero, Pietro Ferraris, l’eroico capitano Luigi Mario, Giuseppe Annaratone, Luigi Garavelli e Giovanni Baudagni. A Magenta, Giovanni Cavalli trovò la morte combattendo per la causa italiana, mentre a Palestro, Giovanni Francesco Beccaria sacrificò la propria vita. Uomini comuni, animati da un’eccezionale fede e coraggio, senza pretese di gloria o di riconoscimenti. Silenziosamente, hanno offerto il bene più prezioso, la loro stessa esistenza, per la patria e per la libertà. Il loro è stato un martirio autentico, un sacrificio che merita onore e rispetto imperituri. La loro dedizione rappresenterà un valore assoluto, un esempio luminoso per le generazioni future.
Finalmente, un anno dopo, l’Unificazione d’Italia vide la luce, sotto la guida della dinastia dei Savoia. L’impresa garibaldina dei Mille, con la sua epopea nel Meridione, sarà decisiva per abbattere le ultime resistenze. Furono chiamati a confrontarsi con un re bigotto, Ferdinando II, sovrano di uno stato arretrato, soffocato dalla burocrazia corrotta e negligente, e che, nell’ora della verità, verrà abbandonato al proprio destino dagli alleati inglesi. Un quadro complesso, intriso di eroismo e di meschinità, di ideali e di interessi contrastanti, che segnerà profondamente il travagliato percorso verso l’unità nazionale. Sarà un’annessione frettolosa, che, in modo paradossale, alimenterà rivolte e brigantaggio, regalandoci un revanscismo antirisorgimentale con un lamento permanente e la meridionalizzazione dell’apparato statale italiano negli anni a venire.
E qui si aprirà un capitolo paradossale e quasi bizzarro: gli stessi eroi che avevano liberato il Sud, i Mille di Garibaldi, saranno ben presto “invitati” a farsi da parte, un riconoscimento a dir poco singolare e poco riconoscente per il loro inestimabile contributo, con un catalogo di contraddizioni e spigolose acrobazie dialettiche.
Nelle file garibaldine, con impegno incessante, fedeli a se stessi e anche agli altri, hanno militato il diciassettenne valenzano Giuseppe Camasio e il ventunenne Angelo Clerici. Ottennero la medaglia d’argento al valor militare risorgimentale i seguenti valenzani: il luogotenente Persighini, Gaspare Menada, Massimo Giovanni Bonzano, Giovanni Ferraris, Stefano Lingua, Giuseppe Zeme e Carlo Calvi.
Il nostro Risorgimento, che è costato agli italiani meno vittime della recente pandemia, si concluse nel 1866 con la Terza Guerra d’Indipendenza, in cui, pur avendo fatto una brutta figura a Custoza e a Lissa, la vittoria dei prussiani sugli austriaci ci permise di ottenere il Veneto a indennizzo. Il deputato di Valenza Pier Carlo Boggio, ufficiale della Guardia Nazionale, e il caporale valenzano Carlo Bonzano caddero gloriosamente durante la famosa battaglia navale di Lissa. I valenzani Carlo Cavallero, Giuseppe Mazza e Filippo Torra ottennero la medaglia d’argento al valore militare per la campagna del 1866.
Se sul percorso del passionale ma gentiluomo Vittorio Emanuele II, dell’ardimentoso Garibaldi, che desiderava un’autocrazia monarchica o fare il dittatore, o del demonio opportunista Gran Conte Cavour, che comprendeva solo le logiche di proprietà per lui sacre, fosse apparso qualche funambolo scafato d’oggi, non ci sarebbe stata l’Unità d’Italia. Nessuno di loro, incluso il fuoriclasse Mazzini, aveva la minima inclinazione sociale, che suona un po’ come un’autenticità iconoclasta contaminata da compromessi. Ma, oltre a fare l’Italia, qualche opportunista sussiegoso, così sensibile, a parole, alla gloria nazionale, che si è gonfiato il petto e le ha sparate grosse, ha saputo badare bene anche agli affari propri, uscendone impunito, e ben presto il patriottismo risorgimentale, che non era solo esaltazione e subordinazione, sarà inesorabilmente snaturato dalla retorica sabauda e dalle altrui presunte colpe.
È la solita vecchia storia che si replica, cambiano i protagonisti, mutano gli sfondi, ma il canovaccio con le sue ventate di odio guerrafondaio è sempre lo stesso. Anche se certi paragoni storici sono spesso arbitrari e della gloria non c’è più traccia.