Banditi a Villabella di Valenza nel 1967
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
7 Settembre 2025
ore
08:07 Logo Newsguard
Il saggio

Banditi a Villabella di Valenza nel 1967

L'approfondimento storico del professor Maggiora

VALENZA – La banda Cavallero, un’entità criminale profondamente radicata nel tessuto politico italiano degli anni Sessanta, si distinse per una serie di rapine audaci che si estesero tra la vibrante metropoli di Milano e la laboriosa provincia di Torino. La genesi di questa gang si colloca nel cuore di Torino, precisamente in un anonimo bar di Corso Vercelli, arteria pulsante del quartiere periferico di Barriera di Milano, un crogiolo di speranze e frustrazioni. Per qualcuno sono gli anni della peggio gioventù con raggruppamenti urlanti e instupiditi da slogan politici.

Le rapine, che toglievano il respiro, concepite come atti rivoluzionari e intrise di una retorica di giustizia sociale, inizialmente si focalizzarono sul bottino e, in modo peculiare, sull’attenzione verso le figure femminili, un elemento quasi romantico in un ambiente di violenza. Per un periodo, la banda riuscì a eludere le maglie della polizia, trasformando le rapine in un gioco pericoloso. Tuttavia, la tensione e la sete di potere portarono a una tragica escalation, con le azioni che degenerarono in scorribande violente e incontrollate seminando panico, dove la sacralità della vita diventa quasi un dettaglio.

Il nucleo della banda era composto di figure emblematiche, ciascuna con un background unico che contribuì a plasmare l’identità del gruppo. Al vertice si ergeva Pietro Cavallero (1929-1997), il capo indiscusso, un leader carismatico e torinese purosangue, affettuosamente soprannominato «il Piero». Lavoratore saltuario, con una profonda fede nell’estremismo di sinistra, Cavallero incarnava la rabbia e la frustrazione di una generazione.

Al suo fianco, come braccio destro, operava Sante Notarnicola (1938-2021), originario della Puglia, un uomo dal passato complesso e dal pensiero in evoluzione. Iscritto inizialmente alla FGCI e poi al PCI, Notarnicola abbandonò presto la rigidità della sinistra istituzionale per abbracciare ideali rivoluzionari e anarchici. Prima di unirsi alla banda, aveva svolto i mestieri più disparati, da venditore ambulante di fiori a facchino, temprandosi nella durezza della vita.

A completare il quadro troviamo Donato Lopez, detto “Tuccio” (1950-2010), figlio di una famiglia emigrata da Taranto a Torino in cerca di un futuro migliore. Infine, Adriano Pasqualino Rovoletto (1935-2015), dalle radici venete, contribuiva con la sua esperienza e il suo temperamento a bilanciare le diverse anime della banda.

Il culmine della parabola criminale della banda Cavallero si consumò il 25 settembre 1967, quando il gruppo osò sfidare apertamente lo Stato prendendo d’assalto il Banco di Napoli in Largo Zandonai a Milano. Un atto disperato, un ultimo tentativo di affermare la propria presenza in una società che sembrava non offrire alternative. Questa rapina, però, segnò anche l’inizio della fine, aprendo la strada alla cattura dei membri della banda e alla loro definitiva scomparsa dalla scena criminale italiana. L’eco delle loro azioni, tuttavia, continuò a risuonare come un monito sulla fragilità del sistema e sulla persistente necessità di giustizia sociale.

La polizia intervenne e, come se non bastasse, dopo una sparatoria tra i passanti con un interminabile inseguimento in città, alla fine si contarono 3 morti (un quarto sarà stroncato due giorni dopo da un infarto), la loro fuga finirà con uno schianto contro un muro. Rovoletto sarà catturato subito, Lopez la mattina successiva.

Cavallero e Notarnicola, i due membri più astuti e determinati della banda, riuscirono a sgusciare via, svanendo nel caos post-incidente. Con l’ombra della legge alle calcagna, si diressero di corsa verso la stazione di Porta Genova, un crocevia di destini in fuga. Salirono a bordo di un treno diretto ad Alessandria, via Mortara, sperando di confondersi tra la folla e guadagnare tempo prezioso.

Tuttavia, la prudenza li spinse a scendere a Mortara, interrompendo il viaggio in treno e cercando una via di fuga alternativa. La fortuna, per un breve istante, sembrò sorridergli. Una Fiat 500 di passaggio, guidata da due commercianti di Olevano diretti a casa, si fermò a offrirgli un passaggio. I banditi, senza esitare, accettarono l’offerta, sperando di allontanarsi il più possibile da Milano.

Giunti a Olevano, si congedarono dai loro involontari benefattori e risalirono su un treno, sempre diretto ad Alessandria, ma scesero pochi chilometri prima nel tranquillo sobborgo alessandrino di Valmadonna. Affamati e stremati dalla fuga, si rifugiarono nel bar della Società di Mutuo Soccorso, un locale dall’aria familiare e poco frequentato. Ma la loro sosta ristoratrice fu bruscamente interrotta. Proprio in quel momento, lo schermo della televisione appesa sopra il bancone iniziò a trasmettere i dettagli agghiaccianti della rapina milanese, completi d’immagini e testimonianze. Il panico li assalì.

Tirava una brutta aria, capirono di essere stati probabilmente scoperti e si dileguarono in fretta, abbandonando le loro consumazioni e la speranza di un attimo di tregua. Trovarono riparo nell’oscurità della galleria ferroviaria, non lontano dal sobborgo, dove trascorsero una notte insonne, tormentati dalla fame e dalla paura. La notte successiva, ancora intrappolati in quel limbo di angoscia, decisero di abbandonare la galleria e avventurarsi nella campagna circostante, un labirinto di campi e vigneti.

La fame li spinse a cibarsi di qualche grappolo d’uva più che matura, strappato dalle viti sguarnite che costellavano la zona, si erano ormai  quasi assuefatti a concepire la fuga come un aspetto residuale della loro vita. Vagando tra Valle S. Bartolomeo, Pavone, Pietra Marazzi e il valenzano, cercarono disperatamente un nascondiglio sicuro, un luogo dove poter finalmente riposare e pianificare la loro prossima mossa. Alla fine, trovarono rifugio in un casello abbandonato delle Ferrovie dello Stato, situato lungo la linea ferroviaria che collegava Valenza a Casale. Quel luogo desolato e dimenticato, testimone silenzioso del passaggio dei treni, divenne il loro ultimo baluardo, un rifugio precario in attesa di un destino incerto. Lì, tra le mura fatiscenti e la polvere del tempo, si prepararono ad affrontare le conseguenze delle loro azioni sapendo che la loro fuga, per quanto speranzosa, era giunta ormai amaramente al capolinea.

Lunedì mattina, 2 ottobre 1967, l’aria frizzante annunciava l’autunno mentre il sole timidamente si faceva strada tra le colline valenzane. Dopo giorni di fuga disperata, segnati dalla fame e dalla stanchezza, Cavallero e Notarnicola, due figure avvolte nell’ombra della latitanza, sentirono l’impellente necessità di rifocillarsi. La decisione, apparentemente innocua, di fare una breve puntata al vicino borgo di Villabella, il piccolo sobborgo di Valenza immerso nella quiete della campagna, si sarebbe però rivelata fatale.

Cercando di mimetizzarsi tra i pochi dimoranti, acquistarono provviste in un negozio locale, ignorando che proprio quell’atto di necessità avrebbe segnato la fine della loro rocambolesca fuga. Erano latitanti da una settimana, sette giorni di braccaggio incessante da parte di forze di polizia imponenti. Carabinieri, poliziotti e persino reparti speciali, tutti impegnati in una formidabile caccia all’uomo che teneva l’intera Italia con il fiato sospeso, sdegnata e incollata ai notiziari. Ogni angolo del paese era tappezzato dalle loro foto segnaletiche, pubblicate a caratteri cubitali su ogni giornale, rivista e manifesto.

La pressione era insostenibile. Notarnicola, nel tentativo di apparire un acquirente qualsiasi, si recò nella bottega di Giustina Falaguerra–Caprino, un piccolo emporio che profumava di pane fresco e salumi. Acquistò del cibo, pagando con una banconota da dieci mila lire. Dopo aver concluso l’acquisto, distratto e logorato dallo stress, si allontanò, dimenticando la borsa sul bancone.

La signora Caprino, una donna dal cuore generoso e dall’occhio acuto, uscì immediatamente per cercarlo e restituirgli l’oggetto smarrito. Fu in quel preciso istante che la sorte dei due latitanti precipitò. All’esterno del negozio, in strada, ad attenderlo c’era Cavallero, che faceva la guardia, nervoso e sospettoso. La signora Caprino, con uno sguardo fugace, lo riconobbe. Le foto segnaletiche pubblicate sui giornali erano impresse nella sua memoria. Un brivido le corse lungo la schiena, un misto di paura e di incredulità.

La circostanza assunse immediatamente dimensioni inquietanti, gravide di conseguenze. Con prode coraggio, nonostante la paura che le attanagliava lo stomaco, la signora Caprino non esitò. Rientrò immediatamente nel negozio e, tremante, telefonò ai carabinieri, fornendo una descrizione precisa degli individui e della loro posizione. Le informazioni arrivarono al comando valenzano come un fulmine a ciel sereno. In una situazione di grande incertezza e con la luce del giorno che rapidamente declinava, i carabinieri si trovarono di fronte a una decisione difficile. L’operazione era complessa, il rischio di un conflitto a fuoco elevato. Inoltre, le numerose segnalazioni errate, giunte da ogni parte della Lombardia e del Piemonte negli ultimi giorni, avevano contribuito a creare una certa confusione e scetticismo.

Dopo un’attenta valutazione, pare che decisero di rimandare l’operazione al mattino del giorno dopo, una scelta non semplice ma dettata dalla prudenza e dalla necessità di pianificare un intervento sicuro ed efficace. Quella notte, a Villabella, la tensione era palpabile, con interrogativi angosciosi per qualcuno e  con il rischio di braccare i fuggitivi con i forconi per altri.

Notarnicola racconterà: ….Arrivammo a un casello ferroviario abbandonato, entrammo, non si poteva più andare avanti senza essere visti da qualcuno, era giorno fatto. «Siamo fregati», disse Piero. «A quest’ora la polizia sa che siamo da queste parti, arriveranno a centinaia, magari con i cani, ci troveranno». «Eppure non possiamo andarcene di qui», risposi. «Nei campi ci sono i contadini, i cacciatori, siamo obbligati ad aspettare la notte»……

Scriverà in seguito: …Venne il tre ottobre. Ci svegliammo prima dell’alba. Eravamo intirizziti dal freddo, con le ossa rotte. «Prepariamoci, è ora di andarcene», dissi svegliandolo. Brontolò un poco. Cercò di nicchiare: «Non possiamo metterci in viaggio, non abbiamo neppure l’acqua». Era vero e non sapevamo dove e quando trovarla. L’unica soluzione era tornare a Villabella, conoscevamo già il posto. «Se non è venuto nessuno finora è stato perché non erano sicuri che fossimo noi. Magari avranno pensato che abbiamo preso il treno per Casale, chissà…». «Andiamo allora, fin ch’è buio». Una passeggiata di due chilometri ci sgranchì le gambe, ci scaldò i muscoli.

Arrivammo in paese, fummo notati da qualcuno. Prendemmo l’acqua, tornammo al casello. Lungo la strada discutemmo sulla situazione: ormai era quasi certo che ci avevano riconosciuti. Al casello dovevamo tornare per riprendere la borsa contenente il cibo e altro. Ma stava facendosi tardi. Vedevo che Piero si rabbuiava sempre di più, era molto teso. Aveva cominciato a essere irritabile a mano a mano che ci avvicinavamo verso Casale, la sera prima aveva anche proposto di tornare ad Alessandria. Ora, dopo che ci avevano visti, gli stava tornando l’espressione di otto giorni prima, a Milano. Non parlò più fino al casello. Andammo al piano superiore, cominciai a preparare la borsa. Lui si sedette e accese una sigaretta: «Che cosa fai?». «Ce ne andiamo». «Dove?». «Mah, a Casale. Cominciamo intanto a uscire di qui, abbiamo ancora una mezz’oretta prima che escano i contadini. Dobbiamo arrivare a Casale, non c’è molto; di lì cercheremo di telefonare ai tuoi amici, no?». «E’ inutile, è tutto inutile», rispose Piero. «Come?…».

L’alba del martedì si tingeva di un pallido grigio quando la vicenda intricata che teneva col fiato sospeso alcuni abitanti di Villabella giunse al suo epilogo. Erano le 5:30, un’ora in cui il sonno pesante spesso avvolge ancora i paesi, quando una nuova chiamata ruppe il silenzio della caserma dei carabinieri di Valenza. A dare l’allarme, ancora una volta, era l’orafo Mario Ghezzi, un uomo la cui tranquillità era stata sconvolta dagli eventi del giorno precedente. Era stato avvertito dalla madre, Evasina Cordero, una donna anziana ma ancora attenta e perspicace, dell’avvistamento dei due ricercati nei pressi di un vecchio casello ferroviario abbandonato.

La notizia, carica di tensione, si propagò rapidamente tra i militari. Dalla stazione di Valenza si mossero immediatamente il maresciallo Lolliri, un uomo d’esperienza con uno sguardo che non lasciava spazio a dubbi, e il carabiniere Costa, giovane ma determinato a dimostrare il suo valore. La loro segnalazione, però, non si fermò lì. Rimbalzò fino al nucleo radiomobile di Casale Monferrato, dove il comandante, il maresciallo Sganga, un ufficiale dal piglio deciso e dalla fama di uomo d’azione, comprese immediatamente la gravità della situazione. Senza esitazione, Sganga partì accompagnato dai carabinieri Giordano e Morabito, due uomini fidati e pronti all’azione.

Dopo un breve e infruttuoso sopralluogo nella zona, i tre militari decisero di fermarsi a Ticineto, un piccolo centro a pochi chilometri dal casello. Lì, caricarono a bordo il comandante della locale stazione, il maresciallo Colli-Vignarelli, un uomo taciturno ma con una profonda conoscenza del territorio e dei luoghi più remoti dove i fuggitivi avrebbero potuto cercare rifugio. Colli-Vignarelli conosceva ogni anfratto, ogni sentiero abbandonato, ogni rudere dimenticato dalla civiltà.

Finalmente giunsero al casello abbandonato, ora avvolto dal silenzio e dall’oblio. Mentre il maresciallo Sganga, con cautela, circumnavigava lo stabile, studiando ogni possibile via di fuga, il maresciallo Colli e il carabiniere Giordano si addentrarono nell’edificio. Il primo ispezionò metodicamente il pian terreno, mentre il carabiniere Giordano, armato di coraggio, si avventurò su una stretta e ripida scala che conduceva al primo piano. Il maresciallo Colli, subito dietro di lui, lo seguì con passo cauto ma deciso. Il milite sbucò, con la testa, attraverso una vecchia botola, la cui ruggine strideva a ogni movimento. La scena che gli si presentò davanti lo colse di sorpresa.

I quattro Carabinieri che hanno catturato i banditi. Da sinistra Morabito, Sganga, Colli Vignarelli, Giordano

In una stanza spoglia e polverosa, illuminata dalla flebile luce di una finestra sporca, scorse i due banditi. Fumavano, incuranti del pericolo, e si stavano rifocillando con carne in scatola, come se si trovassero nel più confortevole dei rifugi. Per un istante, il carabiniere Giordano quasi li scambiò per dei semplici vagabondi, degli sbandati in cerca di un riparo temporaneo. Ma l’addestramento, la disciplina e il senso del dovere presero il sopravvento. Senza esitazione, puntò contro di loro il mitra, l’arma fredda e metallica che rappresentava la legge, e con voce ferma e imperiosa intimò: “Mani in alto!”. Li squadrò da capo a piedi, un’occhiata rapida ma penetrante, capace di cogliere ogni sfumatura di paura e preoccupazione dipinta sui loro volti. Poi, il maresciallo, senza esitazione, con la sicurezza di chi conosce bene le proprie prede, li identificò con voce ferma e tagliente: «Lei è Cavallero e lei è Notarnicola».

Il silenzio che seguì pesò come un macigno. Cavallero e Notarnicola apparivano visibilmente scossi, il colorito pallido, le mani che tremavano impercettibilmente. La sola vista dei mitra, branditi con giovanile impazienza da Giordano e Morabito, aveva sortito l’effetto desiderato: il terrore. I giovani militi, pur nel loro zelo, tradivano una certa inesperienza, e le armi, nelle loro mani, sembravano danzare pericolosamente. «Non fateci del male» implorò Notarnicola, la voce rotta dall’ansia, gli occhi sgranati. Cercava disperatamente un appiglio, una scappatoia in quella situazione disperata. Cavallero, più compassato ma non meno spaventato, gli fece eco: «Anche noi sappiamo cosa vuol dire aver delle armi in mano ed essere nervosi, sparano da sole».

Un tentativo maldestro di stabilire una connessione, di umanizzare la situazione, di fare appello alla comune esperienza di uomini armati. La risposta, lapidaria e priva di empatia, troncò sul nascere ogni loro speranza: «State tranquilli». Qui nessuno è nervoso, non muovetevi e nessuno spara». Una promessa ambigua, che suonava più come un avvertimento che come una rassicurazione.

Un sospiro rassegnato sfuggì dalle labbra di Cavallero. Il suo sguardo si perse nel vuoto, come se stesse rivivendo i fantasmi del passato. «Abbiamo fatto la guerra e abbiamo perso» sussurrò, la voce era un lamento flebile e sconfitto. Un’ammissione di colpa, una resa incondizionata, forse la speranza di trovare un po’ di clemenza in quel momento critico. La battaglia, per lui, era già finita.

Ammanettati, furono trasferiti immediatamente al Comando Legione carabinieri di Alessandria. Dopo un primo interrogatorio furono condotti, sotto buona scorta, al carcere dì via Parma davanti al quale erano astanti centinaia di curiosi indignati che mandavano grida ostili al passaggio degli impassibili arrestati, dove li attendeva il Procuratore della Repubblica e un domani dove cercare di fare i conti con sé stessi e i propri sbagli.

Sempre Notarnicola riporterà: ….. Si abbassarono le sbarre del passaggio a livello. Arrivarono delle macchine. Poi si fermò una 1100 (forse una Giulia?), scesero dei carabinieri, più in là c’era un gippone, si avvicinarono al casello con i mitra spianati. Lui (Cavallero) sentì dei rumori, mi chiese cosa fosse. «Niente», risposi. «Contadini». Pochi secondi, un lampo, il riflesso di tanti anni di addestramento a combattere in sincronismo, l’istinto di avvertirlo, tentare la sorte, ancora una volta. Poi immediatamente la stanchezza, il rifiuto, il distacco psicologico ebbero il sopravvento. Basta, questa volta basta, sono affari suoi, io non c’entro in questa sua guerra privata…; e tacqui. Pochissimi secondi, il rumore degli scarponi nella stanza di sotto, poi su per la breve rampa di scale. Balzò, convinto che fossero dei contadini, mi guardò, vidi una luce di stupore e poi di allarme nei suoi occhi. Girò lo sguardo e si trovò la canna del mitra davanti. Tutto era veramente finito. Dietro il carabiniere sbucò il vecchio maresciallo. Mi guardò. «Tu chi sei?»….. La risposta «Sante Notarnicola, Bandito». In una borsa vengono trovate cinque pistole e un centinaio di proiettili.

Al di là della retorica, grande merito e attestazioni di eroismo, oltre alla taglia del Ministero dell’Interno, giunsero a chi aveva comunicato informazioni utili al rintraccio e alla cattura dei banditi. Alla signora Giustina Falaguerra-Caprino titolare del negozio di generi alimentari in Villabella, e a Mario Ghezzi, orafo in Valenza, figlio di Evasina Cordaro. La prima avvisò i carabinieri il giorno prima della cattura, il secondo, informato dalla madre, indicò ai militari il casello dove i malviventi avevano trovato rifugio.

Dei quattro, solo Lopez otterrà una condanna a 12 anni e sette mesi. Gli altri, quando venne letta la sentenza (8 luglio 1968) che li condannava all’ergastolo, intonarono la canzone proletaria e alzarono i pugni.

Cavallero otterrà, più di vent’anni dopo, la semilibertà e in seguito la libertà condizionale; diventato pittore e scrittore, passerà il resto della sua vita aiutando gli emarginati presso il centro Sermig di Torino. Morirà di cancro nel gennaio del 1997, lasciando diversi dipinti e il libro «Ti voglio bene».

Notarnicola, rivoluzionario e poeta, con tentata evasione, diventerà un’icona del movimento carcerario e della sinistra antagonista, dal 1995 in regime di semilibertà. Tornato libero nel 2000, si stabilirà a Bologna, dove gestirà, fino alla sua morte, un’osteria nel centro della città e dove scriverà vari libri di poesia rivoluzionaria. Ammalato e guarito di Covid morirà a Bologna nel marzo 2021.

Dalla vicenda fu tratto nel 1968 il film Banditi a Milano di Carlo Lizzani con Gian Maria Volonté nei panni di Cavallero, Don Backy nei panni del Notarnicola, Ray Lovelock nei panni del Lopez, Ezio Sancrotti nei panni del Rovoletto e Tomas Milian in quelli del commissario Basevi.

La vicenda della banda Cavallero, una pagina oscura eppure incredibilmente vivida nella storia criminale italiana, si distinse come un fenomeno singolare anche da un punto di vista criminologico. Per la prima volta, forse, la cronaca nera abbandonò la sua dimensione marginale, cessando di essere relegata ai casellari giudiziali e suscitò un interesse viscerale nell’uomo della strada, un interesse che si propagò rapidamente nell’opinione pubblica.

E così, come spesso accade nella complessa e variegata società italiana, il Paese si spaccò, dividendosi fra chi quasi simpatizzò con i membri della banda, magari vedendo in loro una ribellione disperata contro un sistema percepito come ingiusto, e coloro che, invece, invocheranno la pena di morte come unica risposta possibile alla brutalità dei loro crimini. Si crearono due schieramenti opposti e inconciliabili: da un lato i sostenitori, quelli che, magari in segreto, ammiravano il coraggio e la spregiudicatezza dei fuorilegge; dall’altro i denigratori, convinti che la legge doveva essere applicata con la massima severità, senza alcuna attenuante.

Una frattura che, dipende da dove la si guarda, rispecchia le tensioni latenti e le contraddizioni profonde della società italiana dell’epoca.

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