Attività e territorio di Valenza sul finire del Seicento
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
17 Agosto 2025
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Il saggio

Attività e territorio di Valenza sul finire del Seicento

L'approfondimento storico del professor Maggiora

VALENZA – Nel 1679, anche a Valenza si celebrarono solennemente gli accordi di pace, più sulla carta che nella realtà, conclusi tra Spagna e Francia e poi mai rispettati (altro che pacta sunt servanda) e, mentre i valenzani speravano, invano, di essere lasciati indisturbati, nel 1681, un’altra pagina allarmante si chiudeva nella storia di Valenza con la scomparsa di Gabrio (o Gabriele) Gattinara, il feudatario locale. Principale esponente locale di una casta inutile di perdigiorno che gli piaceva stare con i meno utili, sempre più estranea alla realtà, già da anni più morta che viva.

Di vere famiglie feudatarie di Valenza non se ne conosce che una: quella dei Gattinara Lignana. Prima  del capostipite dei Gattinara, Mercurino,  ci furono altre infeudazioni puramente personali (Visconti,Vimercati, Sforza e Sanseverino.

La dipartita di Gabrio, aggravata dall’assenza di eredi diretti, gettò un’ombra di incertezza sul futuro del feudo. La mancanza di un successore designato portò a una situazione di vuoto di potere, richiedendo l’intervento delle autorità superiori per evitare disordini e garantire la continuità amministrativa (essendosi estinta la discendenza dei Gattinara-Lignana, il Feudo di Valenza fu così devoluto alla Regia Camera). Il Magistrato straordinario di Milano (composto da un presidente e sei questori, gestiva i beni patrimoniali e dei cespiti di reddito straordinari oltre alle eredità vacanti, che spettavano di diritto allo stato), consapevole della delicatezza del momento e di fronte all’evidente impossibilità di nominare tempestivamente un nuovo governatore (ultimo dal 1676 Michele de Cordoba y Alagon), decise di agire con celerità e pragmatismo.

La scelta ricadde sul questore Ortensio Cantone – importante generazione di giuristi alessandrini – una figura di comprovata esperienza e integrità, algido e fastidioso al di là delle sue intenzioni; re Filippo IV gli concesse il cavalierato di Santiago con una commenda, ricoprì poi come il padre, Giovan Battista, la carica di Questore del Magistrato Ordinario di Milano (Il Magistrato ordinario era competente in qualsiasi materia economica e finanziaria). A lui fu delegato il compito di prendere possesso del feudo di Valenza, un incarico che implicava non solo la presa di controllo formale del territorio, ma anche la valutazione delle sue condizioni economiche, sociali e amministrative. Conscio dell’importanza della sua missione, si mise immediatamente al lavoro cercando di capire profondamente le esigenze dei valenzani.

Adempiendo scrupolosamente l’incarico ricevuto, Cantone redasse una dettagliata relazione, datata 24 aprile 1681 e autenticata dalla firma del notaio Giovanni Benalia. Questo documento, che divenne noto come la relazione «Cantone», rappresenta una preziosa testimonianza della Valenza del XVII secolo. Essa, con un linguaggio realistico, offre uno spaccato vivido della vita quotidiana, dell’organizzazione sociale, delle attività economiche e delle problematiche che affliggevano la comunità valenzana in quel periodo storico.

La relazione «Cantone» rimase a lungo relegata negli archivi, accessibile solo a pochi studiosi. Fu solo nel 1934 che venne finalmente pubblicata integralmente sulla «Rivista di storia, arte e archeologia per la provincia di Alessandria», offrendo così a un pubblico più ampio la possibilità di accedere a questa importante fonte storica. La pubblicazione suscitò un vivo interesse tra gli studiosi di storia locale che vi trovarono un’inesauribile fonte di informazioni e spunti di riflessione.

La relazione, infatti, si rivela particolarmente interessante, offrendo una prospettiva privilegiata sulla vita e le dinamiche di Valenza nel XVII secolo. Oltre al suo valore documentario, la relazione «Cantone» stimola anche la riflessione e il confronto. Può essere proficuo, ad esempio, tentare un parallelismo fra la città di Valenza descritta nel XVII secolo e quella attuale, individuando continuità, cambiamenti e trasformazioni che hanno plasmato l’identità della città nel corso dei secoli, per scoprire e farci capire quanto fosse preziosa Valenza. In questi anni di persistente incertezza, la nostra zona si presenta come un luogo vitale, capace di espandersi nonostante la sua esposizione strategica alle tante forze armate che la percorrono in lungo e in largo, e un ceto politico locale più incline a coltivare i propri interessi che non il bene comune (ancora terribilmente attuale).

Per cogliere appieno la ricchezza e la suggestione di questo documento, invitiamo il lettore a compiere un piccolo esercizio di immaginazione. Chiudiamo gli occhi per un attimo e cerchiamo di trasportarci indietro nel tempo, in una tiepida giornata primaverile, esattamente venerdì 18 aprile 1681. Immaginiamo di trovarci in questo piccolo feudo, nel minuscolo borgo chiamato Monte, un insediamento modesto ma vitale, composto da «15 cascine e 480 fuochi» (ovvero, famiglie). Cerchiamo di percepire i suoni, gli odori, i colori, di immaginare le vite delle persone che abitavano quelle cascine, le loro speranze, le loro paure, le loro gioie e i loro dolori. Solo così potremo comprendere appieno il significato della relazione «Cantone» e apprezzare il suo valore come finestra aperta sul passato di questa nostra città.

Valenza, cittadina adagiata in una zona caratterizzata da un’aria particolarmente salubre e benefica per la salute, prosperava grazie a una solida economia rurale. Questa economia, basata sull’agricoltura e sull’allevamento, garantiva un tenore di vita dignitoso e autonomo ai suoi abitanti, permettendo loro di sostentarsi con i prodotti della terra.

Il ducato di Milano, di cui Valenza farà parte fino al 1707, era a dominazione spagnola e molti ispanici, militari o civili con le loro famiglie, negli anni precedenti si erano trasferiti a Valenza, portando qui costumi, abitudini e pratiche religiose della loro terra e, negli ultimi tempi, anche una discreta dose di velleitarismo. Siamo in un mondo bigotto ed etereo, con disparità socio-economiche palesi, parecchio lontano da quello d’oggi indebolito da tanta indifferenza e delusione.

La società valenzana era composta da una comunità variegata, che includeva una significativa presenza di figure nobiliari: si stimava, infatti, la presenza di «40 o 50 gentiluomini» residenti in città che non conoscevano bene il lavoro per averlo evitato tutta la vita. Il cuore religioso di Valenza pulsava intorno alla chiesa parrocchiale, un centro di spiritualità guidato da un prevosto rigoroso e inflessibile (Giulio Stefano Lana), figura ecclesiastica di rilievo, affiancato da un collegio di 8 o 9 canonici e dal curato, responsabile della cura pastorale della cittadinanza.

La vita religiosa era inoltre animata dalla presenza di tre conventi di frati, ciascuno appartenente a un ordine differente: i Domenicani, custodi della dottrina e dell’insegnamento; i Francescani, votati alla povertà e alla predicazione itinerante; e i Cappuccini, noti per la loro rigorosa osservanza della regola francescana e per la loro attenzione ai bisognosi. A questi si aggiungevano due conventi di monache, luoghi di preghiera e contemplazione: uno appartenente all’ordine di Sant’Agostino, seguendo la regola del grande teologo, e l’altro all’ordine di San Benedetto, dedito alla vita comunitaria e al lavoro manuale, con una congregazione stimata di «40 o 50 monache circa per ciascun monastero», dove alcune sembravano quasi agli inquisitori domenicani del Medioevo. La fervente devozione popolare si manifestava anche nella presenza di sei chiese, luoghi sacri, dove quotidianamente si celebravano tra le 50 e le 60 messe, testimonianza della profonda fede degli abitanti affogati anche nel pregiudizio e nella superstizione.

Il centro nevralgico della vita civile e commerciale di Valenza era la piazza principale, un ampio spazio aperto dove si ergevano la chiesa parrocchiale (il duomo), simbolo del potere spirituale, il palazzo pretorio, sede dell’amministrazione della giustizia e il corpo di guardia, presidio della sicurezza pubblica. La piazza era animata dalla presenza di diverse botteghe, luoghi di scambio e di artigianato, e ogni giovedì si trasformava in un vivace mercato, punto d’incontro e di commercio per i produttori e i consumatori locali.

Due volte l’anno, in occasione delle festività di San Marco e di San Giorgio, la piazza ospitava una fiera, due eventi speciali che attiravano mercanti e visitatori da tutta la zona; beneficiavano dell’esenzione dal pagamento di dazi e gabelle, sia il mercato settimanale che le fiere annuali, incentivando così il commercio e lo sviluppo economico della città. I traffici di vino, granaglie, bestiame, attrezzi e tessuti assorbivano le energie di un vasto gruppo di mercanti.

A Valenza, centro nevralgico della vita zonale, la cura della salute era affidata a quattro medici, figure centrali nella comunità. A supporto del loro lavoro, operavano cinque o sei barbieri, che non si limitavano alla cura della barba e dei capelli, ma svolgevano anche mansioni di piccola chirurgia e assistenza medica di base. Questi barbieri erano retribuiti in base alla loro posizione economica: i barbieri con un «estimo maggiore» ricevevano un salario di 50 filippi (scudi d’argento) all’anno, mentre quelli con un «estimo minore» percepivano 450 lire annue. Questa differenziazione salariale rifletteva presumibilmente una diversa esperienza, competenza o posizione sociale all’interno della corporazione.

L’amministrazione della giustizia era nelle mani del podestà (dal 1676 Bartolomeo Forti e dal 1682 Orazio Pernigotti), figura di spicco che doveva possedere una laurea in legge, requisito che sottolineava l’importanza della preparazione giuridica per il ruolo. Il podestà risiedeva nel palazzo pretorio, un edificio imponente che fungeva da cuore pulsante del potere cittadino e che ospitava al suo interno tre locali prigione, luoghi di detenzione per chi trasgrediva le leggi. Per il suo servizio alla collettività, il podestà riceveva uno stipendio di dieci scudi al mese (uno scudo di 31,79 grammi d`argento corrispondeva con la lira milanese a 7 lire, 10 soldi). Era un personaggio gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia ad alcuno, curatore sagace di certi interessi, spesso cercava di riequilibrare i rapporti tra Valenza e il governo milanese, dando vita a contenziosi o cercando di far digerire ai valenzani certe prescrizioni sgradite. Una partita ad altissimo rischio sostenuta dal solito assioma: così è se vi  pare, e se non vi pare è così lo stesso.

L’accesso alla città era disciplinato da un dazio di pedaggio, una tassa imposta a chiunque volesse introdurre merci, bestiame o altri beni «forestieri», in altre parole provenienti da fuori Valenza. Questa imposta era destinata agli stranieri, mentre i locali erano esenti da tale dazio. Il ricavato annuo di questo pedaggio ammontava a circa 1200 lire, una somma considerevole che contribuiva alle casse comunali.

Oltre al dazio di pedaggio, esistevano altre forme di tassazione che gravavano su diverse attività economiche. Ad esempio, era previsto un dazio sull’imbottato di granai e vino, che consisteva in una tassa di due soldi per ogni moggio di frumento, segala, miglio, melgone (mais), legumi e altre granaglie, mentre per gli altri cereali era richiesto un solo soldo per moggio (antica unità di misura di capacità).

Un’altra imposta era il dazio sulla scannatura, applicato alla macellazione di animali: due soldi e un danaro per ogni rubbo (antica unità di misura di peso usata in Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale, di valore oscillante tra gli otto e i nove chili) di vitello, manzo, castrato e qualsiasi altro animale macellato. Infine, il dazio sulle brente e sulla misurazione del vino prevedeva il pagamento di un soldo e tre danari per ogni brenta (misura di capacità dei liquidi, il suo valore variava da zona a zona. Per esempio, a Milano valeva 75,55 litri). Altre imposte, pur non specificate in dettaglio, contribuivano ulteriormente alle entrate del Comune, disegnando un sistema fiscale articolato e complesso.

Il sostentamento della comunità locale si basava tradizionalmente sul pascolo del bestiame nelle aree circostanti Valenza e sulla pesca, praticata con assiduità nelle acque del fiume Po, una risorsa fondamentale sia per l’alimentazione che per l’economia familiare.

Sul declinare del XVII secolo, Valenza si ritrovò, suo malgrado, sull’orlo del precipizio bellico, una minaccia estesa e crescente. L’intera Europa, o quasi, si era sollevata in un coro di ribellione contro l’egemonia e il dispotismo di Luigi XIV, il Re Sole, e le ripercussioni di questo conflitto continentale si facevano sentire anche da queste parti. La minaccia si profilava concreta e imminente, gravando come una spada di Damocle sulla popolazione inerme: e la tribù dei musi lunghi imperversava, in attesa del tocco della medusa.

Il 10 maggio 1690, preso atto della serietà della situazione, il Governatore di Milano, responsabile della regione, emanò una solenne «grida», un editto pubblico, con lo scopo di mobilitare le milizie forensi volontarie. Siamo alla chimera, queste forze, che mostravano gli artigli, ma senza graffiare più di tanto, composte da uomini provenienti dalle campagne e dai borghi circostanti, venivano chiamate a raccolta per rafforzare le difese delle piazzeforti strategiche della regione. Al fine di incentivare la partecipazione civica e persuadere i cittadini ad imbracciare le armi in difesa della patria, il governatore elargì una serie di allettanti concessioni. Fra queste spiccava l’esenzione dal pagamento dei carichi fiscali, un incentivo non da poco per una popolazione spesso gravata da tasse e balzelli e costretta a fare i conti con questa realtà. Inoltre, prometteva che, in caso di processo per qualche delitto (un’assicurazione non superflua in tempo di guerra, ma anche cosa non del tutto vera), i volontari sarebbero stati trattati con lo stesso riguardo riservato alla nobiltà, godendo di privilegi e tutele legali superiori.

Il 2 luglio dello stesso anno, il Governatore di Valenza, figura chiave nella gestione della difesa locale e il baluardo più credibile, emise un ordine diretto alla comunità cittadina. Veniva richiesto di selezionare venti uomini robusti e affidabili, destinati a coadiuvare i soldati regolari nel servizio di guardia e pattugliamento. L’obiettivo primario era impedire all’esercito francese, guidato dal Generale Catinat (Nicolas de Catinat de La Fauconnerie, spietato comandante in capo dell’armata francese in Italia, così furente da saltarsi addosso da solo) e già penetrato nel Piemonte, di varcare i confini del territorio valenzano e di devastare le campagne circostanti, incendiando le case e distruggendo le riserve alimentari.

Valenza non solo doveva contribuire attivamente alla difesa, ma era anche chiamata a sostenere lo sforzo bellico rifornendo l’esercito. Veniva pertanto richiesto, rischiando di finire dietro le sbarre, di provvedere foraggi per i cavalli e carne fresca per i soldati di passaggio, garantendo loro l’approvvigionamento necessario per mantenere la loro efficienza operativa. Ulteriormente, la città doveva mettere a disposizione barche adatte al trasporto dell’artiglieria spagnola fino a Frassineto, un punto cruciale per la logistica militare. Parallelamente, da Casale Monferrato, roccaforte in mano francese, partivano continue scorrerie che flagellavano il territorio valenzano.

I soldati francesi, con incursioni rapide e devastanti, distruggevano i raccolti, saccheggiavano e abbattevano le case coloniche, impedendo la coltivazione delle terre seminando il terrore tra la popolazione rurale. Questa situazione nuova, di costante minaccia e depredazione, rendeva la vita estremamente precaria e difficile, con le inevitabili tragedie e miserie, per gli abitanti di Valenza e delle zone limitrofe, privi di una visione consapevole di quello che stava succedendo.

Essendo un luogo fondamentale per il controllo del corso del Po e una porta importante dello Stato di Milano ancora retto dagli spagnoli, Valenza subiva un nuovo assedio nel 1696 (19 settembre – 9 ottobre) e il motivo non differiva molto da quelli che lo avevano preceduto: i francesi uniti ai piemontesi, che non avevano mai smesso di allungare gli artigli su Valenza, volevano togliere nuovamente la città agli spagnoli.

Un incubo che non finiva mai – vent’anni di combattimenti, prima la guerra della Lega di Augusta, poi la guerra di successione spagnola – per scoprire e farci capire quanto fosse preziosa Valenza. La posizione di questa città era ormai una sorta di maledizione, per cui tutto, volente o nolente, si riproponeva sempre uguale. Era una città che pativa senza colpa gli effetti di queste guerre, un campo di battaglia dove si contrastavano interessi egemonici enormi. Tuttavia, nel 1696, con rincuorante efficacia, riuscì a resistere alle diverse migliaia di francesi e sabaudi — dati poco credibili riportano decine di migliaia di fanti e cavalieri, forti di 60 cannoni e molti mortai — guidati dal principe e comandante militare Vittorio Amedeo II e all’incessante bombardamento che provocò molte perdite tra i valenzani. La violenza dell’assedio possiamo dedurla da una supplica fatta dal Comune a Carlo II di Spagna, per ottenere un ristoro per i danni patiti, non andata a buon fine.

Il quadro complessivo che ne è uscito è stato però avvilente e la provvidenza forse la salvezza finale. Una specie di grande spettacolo tragico che ha soffocato la coscienza di chiunque ne avesse ancora una e ha rischiato di essere fatale per Valenza. Dopo pochi anni questa città diventerà infine piemontese.

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