• Network logo
  • Ultima Ora
  • Cronaca
  • Economia
  • Lavoro
  • Politica
  • Blog
  • Newsletter
  • Società
  • Cultura
  • Spettacoli
  • Sport
    • Sport
    • Sport Live
    • Alessandria Calcio
    • Derthona Basket
  • Animali
  • Necrologie
  • Farmacie
  • Farmacie
  • Elezioni
  • Abbonamenti
  • Edicola Digitale
  • Top Tag
    • Staria e storie di Valenza
    • Il deposito di scorie nucleari
    • Dossier Spinetta
    • Il caso Ginepro
    • Il processo Eternit Bis
    • Vite in cella
    • Venticinquesimo Minuto
    • L’ospedale siamo noi
    • I castelli dell’Acquese
    • Arte e Memoria
  • Podcast
    • Eco Sentieri
    • Che cosa direbbe Freud?
  • DOCUFILM
    • Alessandria: tra industrie a rischio e pericolo inquinamento
    • Dossier Spinetta, storia di un inquinamento
    • Le vecchie nuove droghe
    • 1994, la tragedia dell’alluvione: guarda il docufilm
    • In direzione contraria, la strage di Quargnento
    • Il ciliegio di Rinaldo
  • Network
    • Il Piccolo
    • Alessandria
    • Novi Ligure
    • Acqui Terme
    • Casale
    • Ovada
    • Tortona
    • Valenza
      • micro circle logo
      • coogle_play
      • app_store
    Site Logo
    Search
    Leggi l'ultima edizione Read latest edition Abbonati Abbonati
    • Lavoro
    • Cronaca
    • Sport
    • Alessandria Calcio
    • Newsletter
    • Società
    • Necrologie
      • Lavoro
      • Cronaca
      • Sport
      • Alessandria Calcio
      • Newsletter
      • Società
      • Necrologie
    Albori
    Blog, Cultura
    Pier Giorgio Maggiora  
    22 Giugno 2025
    ore
    08:09 Logo Newsguard
    Il saggio

    Albori del Novecento a Valenza

    L'approfondimento a cura del professor Maggiora

    VALENZA – Nei primi anni del Novecento la popolazione valenzana era divisa per classi, caste o ceti sociali. La prima comprendeva i facoltosi agricoltori – come Abbiati, Menada, Reverdy, Terraggio, Trecate e altri – e i professionisti del luogo. La seconda comprendeva i medi e piccoli proprietari di case e terreni, i gestori di botteghe e di laboratori. La terza, la più numerosa, comprendeva i modesti artigiani, gli operai e i braccianti, che faticavano più di tutti sui campi e nelle vigne.

    Però, con il decollo industriale di fine secolo/inizio Novecento, sempre più numerosi contadini e braccianti, abbandonavano la campagna, con le sue vigne danneggiate dalla filossera, un flagello che prosciugava le radici e spezzava la speranza. Gli occhi dei più giovani si volgevano così verso la città, verso quella promessa di lavoro che sembrava brillare di più. A Valenza, infatti, una nuova era produttiva stava sorgendo. L’industria della tomaia, con i suoi congegni ronzanti, e l’oreficeria, con le mani sapienti che trasformavano il metallo prezioso in piccole opere d’arte, offrivano un’ancora di salvezza per tutti. Circa un migliaio di contadini trovarono rifugio in queste fabbriche nascenti, scambiando la zappa con gli utensili del mestiere.

    Ma questa crescita tumultuosa delle due nuove lavorazioni aveva un prezzo. Un’altra industria, legata a tradizioni secolari, stava agonizzando: la filanda. Con la sua lenta e inesorabile morte (diminuzione generale della manifattura serica e crescita della produzione cotoniera e laniera), si spegneva anche una magra risorsa economica per un piccolo mondo femminile locale, fatto di mani rugose e sguardi pazienti, e per un’attività esterna all’azienda che merita una reminiscenza: l’allevamento del baco da seta.

    Era la risorsa stagionale del contadino, un complemento al magro salario che la terra offriva. Con pazienza e dedizione, i contadini, ma più ancora le donne di campagna, «raggranellavano» qualche soldo extra con questo esercizio, prima con la sfogliatura meticolosa dei gelsi, privandoli delle foglie che avrebbero nutrito i voraci bruchi. Poi, la casa veniva invasa da stuoie brulicanti di vermi, un esercito silenzioso impegnato in una metamorfosi sorprendente. Infine, i rami, posizionati con cura, diventavano il palcoscenico per l’ultimo atto: l’appendersi dei bozzoli gialli, scrigni preziosi di seta. Una meraviglia naturale di filatura, un processo quasi magico che avrebbe dilettato assai, se non fosse stato per il puzzo insopportabile, un odore acre e penetrante, risultato della decomposizione delle esuvie e degli scarti dei bachi. Quest’odore persisteva tenacemente nella casa dei bachicoltori, impregnando le pareti e i tessuti anche dopo la raccolta, era un promemoria olfattivo della fatica e del sacrificio, anche per chi proseguiva il lavoro in azienda.

    Eppure, anche i ragazzi, con la loro innocenza e curiosità, partecipavano in piccola parte a questo ciclo vitale. Riuscivano a mettere da parte un piccolo raccolto, un po’ grazie al seme dei bachi che i figli dei contadini si scambiavano a scuola, quasi come fossero figurine preziose, barattandolo magari con qualche birillo o una caramella. Un po’ raccogliendo i bozzoli caduti, scovati sul mercato, tra i carichi imponenti dei grossi cilindri di vimine intrecciato, pronti per essere trasportati alla filanda, dove il filo prezioso sarebbe stato estratto. Un piccolo gesto, un piccolo contributo, che rappresentava un legame indissolubile con la terra e con le tradizioni di un tempo.

    La fiera di San Giacomo si stagliava all’orizzonte come un miraggio di colori e suoni, un’oasi di effimero benessere nel grigiore della vita quotidiana. Ma per le ragazze della filanda, pallide e misere figure piegate dalla fatica, quel brillio festoso era quasi invisibile. L’aria stessa che respiravano in fabbrica, pregna di un odore nauseante e acre, le seguiva ovunque, un marchio indelebile impresso nei loro polmoni. Che si trovassero tra i telai vibranti e rumorosi della fabbrica, o rintanate nelle loro dimore, quell’odore, una miscela inconfondibile di umidità stagnante, fibre tessili e sudore, permeava ogni cosa, al punto che, assuefatte, non vi facevano quasi più caso. Era diventato parte integrante del loro essere, come un’ombra inseparabile. L’orario di lavoro, scandito dal ritmo inesorabile e dal rumore assordante dei macchinari in moto, era per molti operai valenzani terribilmente impreciso, un vago e disumano «dall’alba al tramonto».

    Le prime luci del giorno erano accolte dal risuonare cadenzato delle «zoccole» delle filandere sul selciato irregolare, un concerto malinconico che annunciava una nuova giornata di stenti. Si affrettavano verso la fabbrica, i volti scavati dalla stanchezza, gli occhi spenti dalla rassegnazione. La sera, quando il sole era ormai scomparso da un pezzo dietro le colline, e la luce naturale si era affievolita fino a scomparire, la «capa», tagliata su misura per il ruolo, con un gesto brusco e una voce roca, batteva le mani e gridava: «n’dé a cà fiji!», un ordine liberatorio che segnava la fine, temporanea, della loro reclusione.

    La vita quotidiana scorreva lenta a dispetto di tutte le sue ristrettezze, preoccupazioni e paure, ed ognuno poteva anche cercare di vivere a modo suo. Pochi soldi, poche pretese, ma molti lavoratori orafi andavano ambiziosi, superbi del loro mestiere e in gara a chi lo eseguiva meglio con intima soddisfazione. Le strade, avvolte nel silenzio della notte, si mostravano deserte e polverose, illuminate fiocamente dai lampioni a gas. Il «lampiunè», figura solitaria avvolta nell’ombra, percorreva le vie con la sua lunga pertica, accendendo uno a uno i globi di vetro, diffondendo una luce tremula e giallastra. Considerata all’epoca una grande conquista del progresso, l’illuminazione pubblica rappresentava un’assoluta priorità per la comunità, un baluardo contro l’oscurità e i pericoli che essa celava.

    Le case, con l’intonaco scrostato e i muri incerti, si allineavano lungo le vie come testimoni silenziosi di una vita dura e precaria. Non esistevano ragazzotti immigrati nullafacenti che si aggiravano per le strade. Sulla piazzetta, intorno al busto marmoreo di Garibaldi, eroe risorgimentale dallo sguardo fiero, si radunavano schiere di ragazzi, vocianti e irrequieti. Giocavano, litigavano, correvano, ignari delle fatiche e delle preoccupazioni degli adulti. L’autunno, poi, portava con sé il profumo intenso e inebriante dell’uva matura. Lunghe sfilate di bigonce (J’arbi), cariche di grappoli succosi, percorrevano le strade polverose, dirette verso le grandi cantine dei «Signori» e dei mercanti di vino, come il famoso «l’siur Tofu, in via Alfieri», rinomato per la sua competenza e lungimiranza. Da ogni dove, persino dalla lontana Francia, giungevano intenditori e commercianti per acquistare il vino valenzano, un prodotto pregiato e giudizioso, apprezzato per la sua qualità e il suo sapore unico. Quel vino, frutto del duro lavoro dei contadini e dell’abilità dei vinificatori, rappresentava una delle poche ricchezze di questa terra, un’eccellenza capace di superare i confini e portare lustro alla comunità valenzana.

    A Valenza esisteva solo la piccola proprietà, che non si lanciava tanto sugli investimenti e sull’innovazione tecnica, quanto sulla produzione intensiva di vino e bachi da seta, salendo involontariamente sull’altalena degli equilibri finanziari.

    Il canto rauco e gioioso delle vendemmiatrici, un’eco vibrante che rimbalzava sui colli dorati dal sole autunnale, si mescolava all’odore pungente e inebriante dei mosti che fermentavano nelle cantine cittadine. Questo connubio sensoriale, questa esplosione di vita e colore, rappresentava una breve, inaspettata parentesi afrodisiaca, un’oasi di piacere effimero immersa nella monotonia e nella desolazione di un’esistenza paesana asfittica, priva di risorse e prospettive. Per molti contadini la terra, matrigna e avara, concedeva a stento il necessario per sopravvivere, e la loro vita era segnata dalla fatica e dalla privazione. Nelle lunghe serate invernali, la stalla era il salotto, di ricevimento e di rappresentanza, in cui i gruppi di famiglia si riunivano alla fioca luce del lumino a petrolio.

    Le donne di campagna, con i volti segnati dal sole e le mani ruvide come la corteccia degli alberi, scendevano di frequente al mercato, tra un brulicare di voci e colori. Portavano con sé le uova, un tesoro prezioso, frutto di piccole astuzie e sotterfugi, un po’ sottratte ai padroni per arrotondare il magro bilancio familiare. Le vendevano a otto soldi la dozzina, un prezzo misero che a malapena compensava la fatica.

    Con un misto di rassegnazione e ipocrita compiacenza, un profilo che rasentava la genuflessione, si presentavano modesti e sottomessi dai padroni, portando i «pendizi» – omaggio che il contadino doveva periodicamente assicurare al padrone, nelle forme di regalie in natura e di prestazioni. Attendendo pazientemente nelle anticamere fredde e spoglie, speravano che le serve, figure silenziose e impenetrabili, si degnassero di offrire loro un caffè, una brodaglia scura e amara, fatta interamente di cicoria tostata, senza nemmeno un fugace pizzico di caffè vero, un lusso proibito. Ma la speranza, come un seme tenace, trovava terreno fertile anche in quella terra arida, dove ci si accingeva a cianciare anche di diritti, rimanendo però i padroni ancora ostinatamente manichei. Col vino venduto, frutto della fatica e del sole, cominciavano a circolare i «marenghi», luccicanti dischetti gialli da 20 lire, portati dai compratori francesi, signori eleganti e affabili che, divulgando argomenti imparati per l’occasione, promettevano un futuro migliore.

    Parallelamente, nel cuore pulsante di Valenza, cominciavano a germogliare le prime imprese orafe, embrioni di una futura industrializzazione. Per pochi, lungimiranti e audaci, erano vere e proprie industrie, fabbriche che anelavano a crescere; per molti altri, invece, erano solo piccole aziende artigianali, botteghe, dove si sudava sette giorni su sette, che muovevano i primi passi incerti nel nuovo mondo economico.

    Intorno a queste realtà, nascenti e fragili, si aggregava una piccola popolazione di operai, uomini e donne fuggiti dalla campagna avara, attratti dalla promessa di un salario e di una vita meno grama. Erano anime affamate di cambiamento, assetate di giustizia, che ascoltavano con occhi sgranati e cuori palpitanti i primi discorsi, spaventosamente sovversivi, dei socialisti e dei repubblicani, figure carismatiche che agitavano un grande ideale, la méta suprema della redenzione umana: dieci ore di lavoro al giorno e otto lire di salario.

    Era un ideale proletario, una promessa di dignità e di futuro, che assicurava la sopravvivenza dei lavoratori, un miraggio, una specie di paradiso promesso, lontano e irraggiungibile come una chimera difficilmente probabile, eppure capace di infiammare gli animi e accendere la speranza in un domani migliore. Un domani dove la fatica sarebbe stata ricompensata e la dignità non un lusso, ma un diritto. L’immagine sfuggente di una possibile rivoluzione, fondata sul nulla, un’illusione intrisa di speranze e timori che si materializzava lentamente, prendendo colore e definendo i suoi contorni incerti.

    Questa metamorfosi avveniva di riflesso, alimentata dagli echi inquietanti che giungevano da Milano e Torino, città in fermento dove la tensione sociale era palpabile e, abitualmente, sfociava in violenti scontri, dove il suono secco degli spari, proveniente da fucili imbracciati da soldati nervosi, innalzava la temperatura dello scontro, rendendo l’aria irrespirabile e pregna di un presagio incombente.

    Allora, anche nella sonnolenta Valenza, la scintilla della ribellione trovava terreno fertile. Gli operai, dalle mani segnate dal duro lavoro e con gli sguardi velati di stanchezza e frustrazione, si raccoglievano con fervore sulla piccola piazzetta, il cuore pulsante della comunità. Qui, l’ombra leggendaria di Garibaldi, l’eroe dei due mondi, si proiettava sulle loro anime, trasformandosi in qualcosa d’inaspettato: un sovversivo, un ribelle. Non più solo il paladino dell’Unità d’Italia, ma un simbolo di resistenza contro l’oppressione, un faro nella notte dell’ingiustizia.

    I carabinieri reali, figure imponenti e autoritarie, tagliate su misura per il ruolo di custodi dell’ordine costituito, osservavano con sospetto crescente questi movimenti. I loro grandi baffi, curati con meticolosità, e la montura nera e gallonata, simbolo del loro potere, non riuscivano a nascondere la confusione che li attanagliava. Tenevano d’occhio con particolare attenzione i capannelli di operai, cercando di decifrarne le loro intenzioni, di comprendere il significato dei loro discorsi sussurrati e, soprattutto, non capivano o cercavano di starne alla larga. Non riuscivano a conciliare l’immagine del condottiero delle camicie rosse, l’eroe nazionale celebrato nei libri di storia e nei discorsi ufficiali, con quella del sovversivo, del nemico dell’ordine che si percepiva tra le pieghe della società. Era un enigma inestricabile, un paradosso sconcertante che sfuggiva alla loro logica rigida e lineare. Un enigma condiviso, in fondo, anche dalla «povera gente», che vedeva in Garibaldi sia una speranza di cambiamento che un potenziale pericolo.

    La comunità valenzana era composta da circa duemila operai, impegnati nelle faticose mansioni delle nascenti industrie, e un centinaio di imprenditori. Ma la sorpresa era proprio in quest’ultima categoria. Molti, i più audaci e lungimiranti, erano anch’essi dei «sovversivi», animati da ideali repubblicani e da una profonda insofferenza verso le ingiustizie sociali. Furono tra i primi socialisti della città, contribuendo a diffondere le idee di uguaglianza e solidarietà.

    È curioso, certo, che proprio gli imprenditori valenzani, spesso considerati i pilastri del sistema, fossero all’avanguardia in questo movimento di cambiamento. Ma questa apparente contraddizione si spiegava con una visione più ampia e illuminata del futuro. Credevano in un’economia più giusta, basata sulla collaborazione e sulla condivisione dei benefici. Questa lungimiranza, questo spirito d’innovazione sociale, spiega il successivo sviluppo dell’economia locale, un’economia basata su una larga solidarietà delle forze del lavoro, un modello virtuoso in cui il progresso economico andava di pari passo con il benessere sociale. Valenza, così, divenne un esempio di come la chimera della rivoluzione, pur con le sue incertezze e i suoi pericoli, potesse trasformarsi in una realtà concreta, in un futuro migliore per tutti.

    La sinistra era però troppo austera, sinceramente ideologica, tutta politica, impegno e lotta per il proletariato contro le ingiustizie del potere; ad alcuni, tra animi caldi, urla e schiaffoni, non passava nemmeno per l’anticamera del cervello che ci poteva essere gente che aveva idee diverse dalle loro Verità supreme.

    Nel Teatro Sociale gli spettacoli che più dilettavano erano le opere liriche. Lasciavano molto a desiderare, ma facevano conoscere ai valenzani, non troppo benevolenti nei giudizi, i più grandi capolavori della musica lirica. Le scenografie erano sempre le stesse, molti esecutori si prestavano pure gratuitamente e sorgevano spesso situazioni comiche-artistiche per i commenti, le voci e i fischi che giungevano dall’indisciplinato loggione.

    Uno dei fattori più importanti di sviluppo economico e di decollo industriale di Valenza è stato la stazione ferroviaria, un vanto ingegneristico e di orgoglio; sorgeva solitaria, adagiata ai margini della città come un gigante addormentato. Lontana dal cuore pulsante della vita cittadina, trasmetteva una sensazione di placido isolamento, quasi di oblio. I suoni della modernità, che altrove rombavano prepotenti, qui giungevano attutiti, smorzati dalla distanza. Il fischio lacerante delle locomotive, presagio di partenze e arrivi, si perdeva tra i campi e le colline, raramente raggiungeva le orecchie dei valenzani.

    Per assistere allo spettacolo, alla magia del «vapore», i valenzani si concedevano una gita domenicale, una piccola processione verso il cavalcavia che sovrastava la galleria. Da lì, la vista era impareggiabile: il treno emergeva improvvisamente dal buco nero, vomitando nuvole di fumo denso e acre, un mostro metallico avvolto in una nebbia che sapeva di carbone e di avventura. Oppure, in senso opposto, sfrecciava all’interno della galleria, emettendo un fischio acuto che squarciava il silenzio circostante, un richiamo sonoro verso destinazioni sconosciute. Sembrava che al di là di quel tunnel oscuro si celasse un altro mondo, un universo parallelo quasi irraggiungibile, un Eldorado ignoto e scintillante. Era una sorta di «America» in miniatura, una terra promessa che i giovani sognavano di esplorare, attratti dalla promessa di nuove esperienze e dalla sete di conoscenza. Per i più anziani, invece, quel mondo era già stato scoperto, esplorato e, in parte, consumato. Era il mondo di Alessandria, il capoluogo pulsante della provincia, la città delle opportunità, dove si facevano i rifornimenti, si concludevano affari e si soddisfacevano i desideri di consumo.

    Le donne, in particolare, ne sentivano il richiamo irresistibile. Le più umili, con la pazienza e la tenacia che le contraddistinguevano, affrontavano il lungo cammino a piedi, trascinando ceste e sacchi vuoti, sperando di riempirli con le prelibatezze del mercato. Le «signore» più facoltose, invece, più agiate e raffinate, si affidavano alla «vittüra d’Giülì», una carrozza scricchiolante e un po’ malandata, trainata da un ronzino magro e instancabile. Il cocchiere, soprannominato «Biundì» per via dei suoi capelli chiari sbiaditi dal sole, era una figura leggendaria in città, sempre disponibile e pronto a qualsiasi ora. Conosceva ogni angolo di Valenza e ogni segreto delle sue vie.

    La «vittüra d’Giülì» non era esente da difetti, però. Il più eclatante era l’abitudine del cocchiere di ruttare sonoramente, soprattutto quando si sforzava di reggere i bagagli pesanti. Non si curava di nascondere l’atto con la mano, considerandolo la cosa più naturale del mondo, parte integrante della sua rustica personalità. Nonostante questo piccolo inconveniente da comiche finali, la «vittüra d’Giülì» continuò a servire da collegamento tra la stazione e la città, colmando la distanza fisica e sociale, fino al 1914, anno in cui l’innovazione tecnologica trionfò e il tranvai elettrico, silenzioso e moderno, prese il suo posto, segnando la fine di un’era.

    Il rumore dei ferri del cavallo sulla strada e i rutti sonori di “Biundì” divennero, poco a poco, un ricordo sbiadito, avvolto nella nostalgia del passato. La figura di quell’uomo, un sussurro nel vento di un’epoca tumultuosa, passò in seguito inosservata. La sua voce, forse portatrice di un monito o di una profezia, si perse nel fragore crescente di un’antinomia ormai dominante, un disordine che stava permeando ogni strato della società e che, come al solito, rischiava di finire male.

    L’ipocrisia, simile a un’ombra strisciante, non si limitava a seguire la contraddizione esistente, ma la alimentava, ne amplificava gli effetti nefasti, contribuendo a offuscare la verità e a rendere impercettibili i segnali di pericolo. Non trascorse molto tempo prima che il presagio di sventura si concretizzasse. Poco tempo dopo, l’Europa, già scossa da tensioni latenti e ambizioni inconfessabili, precipitò nel vortice sanguinoso di quel «pasticciaccio» che fu la prima guerra mondiale. Un conflitto fratricida, una carneficina senza precedenti che devastò il continente e lasciò cicatrici profonde nella struttura sociale ed economica.

    E ora, con inquietante somiglianza alle premesse di allora, fra tregue che non si fanno, conflitti che continuano, nuovi che iniziano, con cittadini che non capiscono perché e contro chi dovrebbero combattere, sembra che quello spettro, lungi dall’essere relegato definitivamente nel passato, voglia risorgere dalle ceneri, come un’orrida fenice che porta con sé l’eco di antichi orrori e la minaccia di una nuova, ancor più devastante, catastrofe.

    Il suo ritorno incombente ci interroga sulla nostra capacità di imparare dagli errori del passato e di evitare di ripeterli. Se avremo l’umiltà, prima del cervello, di capirlo; soprattutto per quelli che contano, o forse che si illudono di contare.

    TORNA AL BLOG DI PIER GIORGIO MAGGIORA 

     

     

     

     

    SEGUI ANCHE:

    pier giorgio maggiora storia di valenza storicocittadelloro
    this is a test{"il-piccolo":"Il Piccolo", "valenza":"Valenza"}
    Watsapp RESTA SEMPRE AGGIORNATO. ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP: È GRATUITO!
    Articoli correlati
    Leggi l'ultima edizione
    Leggi l'ultima edizione
    footer circle logo
    Site Logo in Footer
    Google Play App Store
    Copyright © - Editrice Gruppo SO.G.ED. Srl - Partita iva: 02157520061 – Pubblicità: www.medialpubblicità.it
    Chi siamo Cosa Facciamo Pubblicità Necrologie Valenza Privacy Cookie Policy

    Il Piccolo di Alessandria AlessandriaNews NoviOnline AcquiNews CasaleNotizie OvadaOnline TortonaOnline ValenzaNews
    NewsGuard Logo Logo W3C