Bernardino Stanchi e la peste del 1630 a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – A peste, fame et bello libera nos Domine! Dalla peste, dalla fame e dalla guerra, un trinomio funesto che risuonava come una litania disperata sulle labbra delle generazioni d’un tempo: “Liberaci, o Signore!”. Questa invocazione, intrisa di angoscia e rassegnazione, era l’eco di un’umanità perseguitata da tre calamità ricorrenti nel tempo, veri flagelli che seminavano morte e distruzione. La fame, con lo spettro della carestia e la miseria che attanagliava le masse, la guerra, con la sua scia di sangue, saccheggi e rovine, e la peste, la più temuta e letale delle tre, si abbattevano ciclicamente sull’esistenza umana nei secoli. Mentre la fame e la guerra continuano, purtroppo, ad affliggere diverse aree del mondo ancora oggi, la peste, fortunatamente, ha perso il suo carattere endemico grazie ai progressi della medicina e dell’igiene.
Ma nel Seicento, la peste, con la sua inesorabile diffusione e il suo alto tasso di mortalità, era una presenza costante e terrificante, spesso causa di stragi che assumevano le dimensioni di veri e propri genocidi. La medicina dell’epoca, priva degli strumenti diagnostici e terapeutici odierni, era del tutto impotente di fronte a un morbo così devastante. Un senso di impotenza e terrore pervadeva la popolazione, alimentando superstizioni e false credenze.
Giovanni Francesco Fiochetto, uno dei più famosi medici torinesi del XVII secolo, fu testimone oculare della terribile peste del 1630 che colpì Torino, una pestilenza resa immortale dalla penna di Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”. Nel suo «Trattato della peste et pestifero contagio di Torino», un’opera preziosa per comprendere la percezione e il trattamento della malattia all’epoca, Fiochetto descrive la peste con una precisione clinica che si mescola all’orrore vissuto in prima persona. La sua testimonianza, come quella di molti altri medici e cronisti del tempo, ci restituisce un quadro vivido della disperazione, del dolore e della fragilità dell’uomo di fronte a una forza invisibile e incomprensibile. La peste non era solo una malattia del corpo, ma anche una malattia dell’anima, che corrodeva la fiducia nel futuro e incrinava i legami sociali. Fiochetto, attraverso le sue osservazioni e riflessioni, ci aiuta a comprendere meglio non solo la natura della peste, ma anche l’impatto profondo e duraturo che essa ebbe sulla società del suo tempo.
Nel suo «Trattato della peste et pestifero contagio di Torino» così definiva la peste: «Definiremo la peste esser morbo epidemico, contagioso, pernicioso, venenato et mortale quasi a tutti o a molti» e circa il movente scriveva ancora «se vogliamo confessare la verità la causa della peste, come degli altri mali et flagelli che affliggono il genere umano, sono i peccati che muovono il giusto sdegno e l’ira di Dio al castigo…. Diremo perciò la causa della peste sempre proceder dall’ira di Dio per castigo dei peccati».
Pertanto, in mancanza di un’idea su cosa fare e ricorrendo al solito repertorio, purtroppo, usato anche ultimamente con la tragifarsa del Covid, il primo grande vero rimedio per combattere la peste si riteneva fossero soprattutto le preghiere, le penitenze e le processioni. Al culto celeste seguivano poi alcune prescrizioni mediche relative alla dieta da seguire, piante coltivate nell’orto dell’ospedale o del convento, salassi, farmaci quali sudoriferi, purghe e altri rimedi che oggi ci appaiono ridicoli e repellenti. Inoltre, poiché si credeva che gli odori e vapori cacciassero il morbo, si pensava che fosse molto efficace la profumazione, e quindi si profumavano persone e cose, ritenendo così di potersi tenere alla larga dal contagio.
In realtà tutti quei rimedi che la medicina dell’epoca suggeriva, oggi considerati delle «boiate pazzesche», servivano a ben poco di fronte ad una malattia dovuta a un bacillo specifico che attualmente si combatte con antibiotici, sulfamidici o intervenendo chirurgicamente sui bubboni.
Molte e varie furono le pestilenze nel corso della storia umana, dove si offendeva spesso ogni diritto dell’individuo, anche quello del proprio corpo, ma quella che si ricorda come la più micidiale e tremenda, immortalata dalle pagine del Manzoni e da numerose cronache dell’epoca, fu quella del 1630-1632, che colpì quasi tutta l’Alta Italia, determinando circa un milione di morti, cifra enorme rapportata alla densità demografica della popolazione d’allora.
Per limitarci a quanto accadde in Valenza in quegli anni, leggendo le memorie lasciateci da Bernardino Stanchi – un lamento con inchiostro e lacrime fatto da un raffinato pensatore, con una tendenza alla permalosità e all’iracondia, ma anche insigne nel legame con gli altri uomini – ci incrociamo con una cappa asfissiante e nelle prime avvisaglie di pestilenza, Inizialmente quasi banalizzata, soprattutto per incompetenza, ma anche sapendo del resto quanto poco si potesse fare. Emerge nello scritto la paura primordiale di morire, di soffrire e di perdere i cari.
Senza dubbio il giureconsulto Bernardino Stanchi è il personaggio più importante di questa famiglia valenzana. Un esimio letterato, una specie di voce autonoma e libera, autore di memoriali contenenti la narrazione di fatti storici locali e alcune indicazioni sulla sua famiglia e sulle parentele. Egli visse a Valenza tra il Cinquecento e il Seicento, un’epoca in cui la presenza del duomo, dei monasteri, dei conventi, delle numerose chiese e confraternite prova una certa densità di popolazione, forse 5.000 persone all’inizio del XVII secolo, che diminuirà a causa delle troppe guerre e delle pestilenze del Seicento.
Nel 1601, Bernardino si laurea in legge a Pavia; quello stesso giorno, insieme con lui diventano dottori anche i valenzani Altobello Chiesa e Bartolomeo Bocca. Il 7 aprile 1603 sposa Isabella, appartenente alla ricca e potente famiglia dei Bellingeri, nota per vari possedimenti a Bassignana e a Rivarone. Da quest’unione nascono due figli: Giulio Cesare il 7 marzo 1604 e Angela Vittoria il 3 marzo 1605. Nel 1606, a soli 21 anni, muore la moglie di Bernardino, forse di tubercolosi, e due mesi dopo si spegne anche la figlia Angela Vittoria a causa del vaiolo. Lo stesso Bernardino è colpito dal vaiolo, da cui si salva a fatica ma perdendo un occhio.
Nel 1607 l’uomo si risposa con Isabella Stracca, figlia di Morino Monaco Stracca, una famiglia di nobili origini che possiede numerose proprietà nel Monferrato e nella Lomellina. La nuova moglie Isabella morirà contagiata nella pestilenza del 1630.
Le donne dell’epoca, dalle forme abbondanti e rispettose della sacralità del matrimonio, durano poco; la loro vita è spesso molto breve a causa della gravidanza e del parto. La loro fedeltà è ancora difesa a sassate per garantire la sicurezza della paternità, obiettivi assai più facili da enunciare che da realizzare.
Bernardino è stato un sublime letterato, arrogante e demagogico nel senso più nobile del termine, con uno stile basato sullo studio storico e sulla rappresentazione della realtà caratterizzato da una certa estrosità descrittiva, cui la sua elevazione lo consentiva. Di notevole pregio sono il memoriale sconfortante relativo alla peste del 1630 che in questo scritto trattiamo e, tanto per gradire, la sua relazione dettagliata del leggendario assedio di Valenza del 1635, quando la città, accerchiata dalle poderose truppe di Vittorio Amedeo e di Odoardo di Parma al comando del francese Créquy, venne difesa dagli spagnoli comandati dall’effervescente concittadino governatore Francesco De Cardenas. L’assedio durò dal 9 settembre al 27 ottobre 1635, quando il generale spagnolo Coloma, giunto in soccorso, attaccò gli assedianti e li obbligò a ritirarsi. In un periodo di declino economico e culturale, con una classe imperante fragile e incerta che ci rende difficile decidere se sia più angosciante il risultato finale o il presupposto iniziale. Bernardino Stanchi muore probabilmente nel 1639.
In una sua annotazione iniziata il 17 luglio 1630 ove, dopo aver dato notizia della presa di Mantova da parte de «li Allemani», così scrive: «Questo anno siamo pieni di peste. In Milano, Pauia, Parma vi è stata grandissima quantità de morti. A dì 20 luglio 1630 al lazaretto è morta madonna Lucia Frachia Bombello, suo figliolo Gio Angelo, con due figliole di Polidoro Frachia suo fratello».
Ma la prima notizia certa del contagio in Valenza l’abbiamo, sempre nello stesso memoriale, il 27 giugno 1630 con questa annotazione: «Cominciò a scoprirsi il contagio con duo i buboni nell’inguina gli e (inguine) che vensero (vennero) alla signora Laura Bocca che fu moglie del fu Prospero Peri di Massimo».
Da questa data, per il passaggio di truppe alemanne, incomincia la lunga triste litania di morti appestati anche nella nostra città, guidata dal sindaco Stanco (Stanchi?) e per contributo economico dal curato canonico Don Francesco de Cardenas, una forma di dannazione collettiva con tutto il seguito di lazzaretti, monatti, sepolture in fosse comuni, roghi di mobili ed effetti personali infetti, come avveniva in tutti i luoghi ove infuriava il morbo che era in cima alla lista delle angosce della gente, sovente solo aiutate a morire, con precorse confessioni illimitate e testamenti dei più ricchi. Tutti si sentivano esposti, indifesi e mortali. Non esistevano vie di fuga, solo contributi amorevoli verso gli altri, inutilità da cavalcare, esperimenti rassicuranti e incomprensibili. Qualcuno consigliava pure di respirare con moderazione.
Nell’interessante memoriale di B. Stanchi, si ha notizia dello sposalizio di una diciottenne, Anna Stanchi, con il capitano Tuttavilla Gerolamo, avvenuta il 12 settembre 1630, e in una successiva nota del 3 ottobre, cioè dopo appena ventuno giorni dalle nozze, leggiamo questa agghiacciante e penosa notizia: «Adì 3 ottobre. In quattro giorni è morta di peste la detta signora Anna, caso miserando».
Qualche giorno prima, il 1° ottobre, era morto Bartolomeo Bocca, prevosto del Duomo, in quattro giorni di male – si tratta dello stesso che pose la prima pietra al nuovo duomo e poi lo inaugurò nel 1622. Ancora con una nota del 1° ottobre 1630 lo Stanchi ci dà notizia di aver «fatto riffare Nos tra Signora che è sopra il cantone della mia casa da Maestro Claudio Goizerio Pittore» con invocazione di intercessione della Vergine per preservare la casa dal morbo, si tratta dell’effige della Madonna fatta dal pittore fiammingo Gozzero, che ancora si vede nella casa in via Pellizzari ad angolo con la via Cavour, appartenuta e abitata da Bernardino Stanchi. La scritta citata è invece scomparsa.
Nonostante la richiesta intercessione quella casa non fu esente dalla peste. Il 9 dicembre 1630 lo Stanchi ci fa sapere che la moglie Isabella Stracca, «inferma di contagio», fece testamento, e il 15 dicembre successivo moriva. Altre notizie dolorose di morti per peste ci dà ancora lo Stanchi nel suo memoriale, finché finalmente ci dà notizia della fine del morbo, nel 1631. Macerandosi tutti in un lutto collettivo, o peggio, nel risentimento, e per qualcuno anche nell’apostasia.
Crescendo le ombre della pestilenza su Valenza, la Compagnia del Santissimo, ormai stremata e in preda allo smarrimento, si trovò a dover affrontare l’incalzante necessità di smaltire le vittime. In un gesto disperato, ma pragmatico, acquistò un cavallo robusto e resistente, destinato all’ingrato compito di trasportare i corpi martoriati degli appestati verso il luogo di sepoltura, sottraendoli alle strade e alle case, per limitare, per quanto possibile, la diffusione del contagio. Parallelamente, il Comune di Valenza, conscio della gravità della situazione e dell’urgenza di cure mediche, si adoperò per assicurare la presenza di un professionista qualificato. Stipulò quindi un contratto con il chirurgo Vincenzo Leardi, offrendogli un compenso mensile di ben venti scudi, una somma considerevole per l’epoca, oltre all’alloggio. In cambio, Leardi si impegnava ad assistere gli appestati, fornendo cure gratuite ai più indigenti, mentre gli altri avrebbero dovuto pagare un modesto contributo (venti soldi per un salasso, pratica comune all’epoca).
L’epidemia, tuttavia, non risparmiò nessuno, e l’assistenza ai malati divenne una missione pericolosa, compiuta con abnegazione e coraggio. Il Prevosto stesso, figura di spicco della comunità religiosa, si dedicò senza riserve alla cura degli infermi, fino a sacrificare la propria vita, cadendo vittima del morbo che cercava di combattere. Anche i frati cappuccini si distinsero per la loro dedizione, prestando soccorso e conforto senza timore del contagio. Il loro impegno eroico non passò inosservato, e il Comune di Valenza, riconoscente, rilasciò loro un formale attestato di benemerenza, testimonianza del loro servizio esemplare durante i tempi bui della peste. Di questi valorosi cappuccini, quattro in particolare si prodigarono con instancabile impegno nel lazzaretto locale, luogo di sofferenza e disperazione: Francesco Dini e Lodovico Bombello, entrambi stroncati dalla peste mentre svolgevano il loro servizio, Sante Calcamuggi e Onorio Cerruti, i cui nomi risuonano ancora oggi come esempio di altruismo e sacrificio.
Durante la pestilenza i ricchi erano curati in casa, mentre la maggior parte dei malati veniva trasferita nel lazzaretto, un luogo di confinamento e di isolamento. Il primo era stato eretto fuori dalle mura della città, un altro, formato da baracche e da una chiesetta di legno, al di là del Po. Dopo la morte si veniva seppelliti ammucchiati in fosse comuni.
Gravissime furono infine le conseguenze della peste sulla situazione demografica, sull’economia e sul tessuto sociale di Valenza, come degli altri luoghi.
I morti furono circa 2500 su una popolazione di circa 4500 anime e vi fu l’abbandono dei lavori agricoli per mancanza di braccia con tutto il carico di carestia e miseria consequenziali. A ciò si aggiunsero le guerre, le scorrerie militari e l’assedio successivo del 1635.
La nostra città impiegò più di un secolo e mezzo per ricostruire il suo tessuto demografico e solo nel 1796 la popolazione di Valenza raggiunse con certezza anagrafica i 4143 abitanti.
Quanto al tessuto economico, in tutto il Seicento, dopo quella terribile pestilenza, vi furono numerose petizioni e suppliche al Re di Spagna, possessore di Valenza, onde ottenere esenzioni varie dagli oneri, imposte e balzelli che gravavano sulla comunità immiserita e dai valenzani proseguivano le implorazioni al Cielo: “A peste, fame et bello libera nos Domine!”.
Il popolo aveva bisogno di eroi, miti e santi, nonché di leader carismatici, al di sopra della gente comune, invece c’è stato perfino qualche miscredente che ha sperato di assicurarsi il futuro usando o recitando il terrore scavando dei solchi e provocando scompiglio con pagliacciate simil-furbesche.
Un brano di rilievo, che fornisce un quadro obiettivo e completo e che racconta i fatti di Valenza accaduti in quei giorni, si trova nel libro «I Frati Minori Cappuccini della Provincia di Alessandria», scritto da Padre Crescenzio da Cartosio, animus tenace di un gruppo guardato con devozione e con il potere di plasmare l’opinione pubblica dell’epoca, esso dice: «A Valenza i nostri religiosi non attesero di essere pregati dalle autorità, ma quando l’invasione del contagio fu ritenuta prossima ed inevitabile, col padre guardiano Ludovico Bombelli da Valenza, si portarono dai Conservatori della Sanità ad offrire i propri servizi. Penetrata la peste in città fu eretto un lazzaretto fuori le mura dalla parte del convento; e tutti i religiosi facevano a gara nel prestare le più affettuose cure agli infermi. Anzi, non essendo stato organizzato, in quei principii il servizio d’approvvigionamento, i frati medesimi s’industriavano a cercar pane, vino, frutta, carne ed il tutto veniva poi distribuito nei vari reparti dal laico Frà Onorato di Valenza. Il padre guardiano aveva fatto piantare una croce nel lazzaretto e dinanzi a quella tutte le sere adunava i suoi religiosi a cantar le litanie della Madonna, e poi con una campanella suonava l’Ave Maria. Dilatandosi tuttavia il contagio, ed essendo ormai troppo angusto l’improvvisato lazzaretto e perdipiù vicino alle mura, ne fu eretto un altro al di là del Po con un buon numero di capanne disposte attorno ad una chiesuola di legno ………. allora il Padre Sante, che aveva ripigliato alquanto le forze, ritornato al lazzaretto, si aggirava fra le capanne e per i giacigli, appoggiato ad un bastoncello; e poiché urgeva il bisogno di assistenza spirituale in città, si serviva, pure con riluttanza, d’una cavalcatura messa a disposizione dai Conservatori della Sanità. Ma nuove fatiche aggravarono il suo stato, e ritenendo di aver presto a fine la vita si ritirò in una capanna remota del lazzaretto esclamando: “qui voglio morire con i miei poveri appestati”. Come si seppe, la sua decisione fu un lutto, una costernazione fra la cittadinanza. Vennero le persone più ragguardevoli ed i Conservatori della Sanità, e lo indussero a ripararsi nella stanzetta assegnata ai religiosi dove, curato con ogni riguardo, migliorò in modo da riprendere i suoi caritatevoli uffici sino alla fine del morbo. Questo cominciò a diminuire d’intensità alla prima domenica d’ottobre, festa della Madonna del Rosario, ed in breve scomparse totalmente. A ricordo della grazia, le autorità ed il popolo di Valenza, per suggerimento del Padre Sante fecero voto di celebrare quel giorno con particolare solennità e con una processione generale in onore del SS. Rosario. ……… siccome la peste aveva assalito buona parte della nostra comunità di Valenza si erano chiesti aiuto ai confratelli del convento di S. Matteo in Alessandria, e di qui erano stati mandati Padre Francesco Didina da Valenza e Frate Matteo Tischio d’Alessandria. Frate Matteo divenne infermiere dei religiosi e Padre Francesco fu messo cappellano del lazzaretto. Anch’egli si prodigò con tanto entusiasmo ed abnegazione, che, nello spazio di pochi giorni, contrasse il morbo e santamente si estinse».
Poi, per la solita scaltrezza beffarda della storia, o forse per la mano eterea della Provvidenza, la discontinua peste si è interrotta misteriosamente per non dire magicamente, pronta a riprendersi lo scenario dopo poco tempo, facendo fare un sospiro di sollievo da una parte e una crescente inquietudine dall’altra. Ma l’uomo, pronto a purificarsi e convinto che si può sopravvivere a tutto, ha sempre fatto presto a rimuovere tutto quello che evocava sofferenza, lutto e morte.