I ponti Cilicca e d’la fúrca di Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia della Città del Gioiello: due curiosità dal passato
VALENZA – La pubblicazione di queste due fotografie può essere particolarmente gradita a qualche anziano valenzano di oggi, il quale conserva ancora il ricordo visivo di quel tempo (secondo dopoguerra), così come a coloro che hanno solo sentito nominare il famoso ponte di Cilicca.
Questo ponte, ormai scomparso, ha lasciato traccia di sé nella toponomastica locale, con la via di Cilicca che ancora oggi ricorda la sua esistenza. Ma qual era l’origine di questo ponte? Esso venne fatto costruire da un facoltoso cittadino valenzano, tal Giovanni Visconti, soprannominato appunto “Cilicca”, il quale soleva trascorrere i mesi estivi nella sua villa situata nelle immediate vicinanze, lungo l’attuale via Melgara (un tempo via Tripoli), al di là di una valletta che iniziava dalla via San Salvatore e precisamente dal luogo chiamato “pont d’la fúrca” e scendeva in modo graduale, allargandosi sempre di più, fino ad arrivare al fiume Po.
Era, infatti, abitudine, tra i benestanti signori di Valenza dell’Ottocento e primo Novecento, rifugiarsi nelle loro dimore di campagna durante la bella stagione, anche per motivazioni legate all’igiene e per permettere ai cavalli di svolgere il loro compito di traino per carrozze e calessi.
Il nostro signor Cilicca, oltre alla villa estiva, possedeva anche una casa invernale, ubicata nel primo vicolo a destra di via Cavour, in una posizione molto comoda rispetto alla centralissima piazza del Duomo, alla Cuntrà Grànda (corso Garibaldi), al Mercato della piazzetta Verdi e al Teatro Sociale. Evidentemente, la passerella da lui fatta costruire, che prese il suo nome, serviva proprio a facilitare gli spostamenti tra la villa estiva e la sua dimora cittadina, attraversando agevolmente il tratto di strada che le separava.
Queste vicende testimoniano il tenore di vita e le abitudini delle famiglie abbienti di Valenza di allora, le quali potevano permettersi il lusso di avere più residenze e di trascorrere i mesi estivi lontano dalla città, in un periodo in cui solo pochi godevano di tali privilegi.
Per raggiungere la casa di famiglia in città, Giovanni Visconti (soprannominato Cilicca) doveva percorrere tutta la via San Salvatore, sino ad arrivare alla grande piazza dove si trovava l’arco del peso pubblico, per poi imboccare l’attuale corso Garibaldi. Purtroppo, non poteva accorciare il percorso a causa della piccola valletta che lo separava dal centro cittadino. Per risolvere questo problema, Visconti decise di costruire, a sue spese, una passerella come quella raffigurata nella fotografia. Questa permetteva di raggiungere in linea diretta il viale Dante e l’inizio del corso Garibaldi, abbreviando così significativamente il tragitto.
La prima immagine mostra la primitiva passerella, con un pavimento in legno piuttosto precario. Diversi anni dopo, Ugo Melchiorre, acquistò la villa e divenne proprietario della passerella, e decise di sostituire il malsicuro pavimento in legno con solide lastre di cemento, rafforzando la scaletta in discesa per l’ingresso da via Tripoli e la scaletta al termine per la risalita alla villa, che rimasero in uso sino agli anni ’50 del secolo scorso. In quel periodo, la valletta venne però riempita e furono costruiti due parcheggi pubblici per auto, causando così la demolizione del ponte.
La seconda fotografia, scattata sempre nel 1927, mostra la villa con, in primo piano, l’ultimo tratto dell’attuale via Melgara, all’epoca chiamata via Tripoli, che terminava al cancello della proprietà Melchiorre. Oltre questo, c’era il ponte che attraversava il vallone sottostante. La seconda scalinata, visibile in fondo nella foto, sembra condurre direttamente verso l’imponente villa, un tempo dimora della nobile famiglia dei Visconti.
Il ponte fu inesorabilmente demolito nell’ultimo dopoguerra a causa del riempimento dell’avvallamento e della successiva costruzione di parcheggi.
Nella notte tra il 9 e il 10 marzo del 1821, in un clima di forte tensione e rivendicazioni patriottiche, ad Alessandria scoppiò una rivolta carbonara, che alcuni credevano lunga e che invece è stata furtiva e corta. Gli insorti, guidati da quattro militari (Ansaldi, Baronis, Bianco e Palma) e da quattro borghesi (Appiani, Dossena, Luzzi e Rattazzi) s’impadronirono coraggiosamente della Cittadella, il principale baluardo difensivo della città, e Santorre di Santarosa, uno dei principali esponenti dell’organizzazione dei moti, issò la bandiera tricolore per la prima volta nella storia risorgimentale, insieme a quella carbonara. Contemporaneamente, il comandante della Guardia Nazionale di Valenza Giuseppe Gervino – un personaggio originale, un chirurgo, circonfuso di luce mistica, di volta in volta combattente e salottiero (un angelo sterminatore alla Saint Just). A Valenza c’era chi lo considerava l’eroe di un’opera drammatica e chi lo percepiva solo come un irriducibile agitatore. Insomma, i valenzani erano largamente critici verso i Savoia ma per motivi diversi, se non opposti a quest’affabulatore straordinario.
Gervino, informato dei preparativi in corso, riuscì a convincere otto suoi concittadini, avventori del caffè gestito da Giovanni Morosetti, considerati da molti degli scappati di casa, o presunti tali, a seguirlo ad Alessandria per unirsi alla rivolta. Il gruppo, stipato su di un grosso carro, alle tre del mattino si mise in marcia verso la città per partecipare alla sommossa. Giunti alla località “Osteriette”, i patrioti scesero dal carro ed entrarono nella Cittadella per prendere parte alla solenne promulgazione della nuova costituzione, ispirata a quella spagnola (il famoso Pronunciamento), che prevedeva maggiori diritti per il popolo piemontese e una riduzione del potere del sovrano.
La notizia dell’estensione della rivolta anche a Torino, dove l’agitazione era fortemente sentita, spinse il re Emanuele I ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice il 13 marzo, nel tentativo di placare gli animi e ristabilire l’ordine. Tuttavia, ben presto a Novara, le truppe austriache e quelle fedeli a Carlo Felice riuscirono a sconfiggere gli insorti, ponendo momentaneamente fine alle speranze liberali dei patrioti piemontesi. La maggior parte degli ispiratori della rivolta, tra cui il coraggioso Gervino, riuscì a fuggire all’estero per sottrarsi alla repressione delle forze reazionarie. Questa rivolta carbonara, pur nella sua breve durata, rappresentò un importante passo nel percorso verso l’indipendenza e l’unificazione italiana, alimentando nuovamente le aspirazioni di libertà e democrazia di un popolo finalmente desideroso di riscattarsi dal giogo dell’oppressione.
Nei tempi antichi, Valenza era delimitata a ovest dal vallone di San Giovanni, attraversato da un ponte che conduceva alla Porta Casale. Lungo questo vallone scorreva l’omonimo rio, che sfociava nel fiume Po e in seguito nel torrente Grana, nei pressi della zona della Colombina. Questo luogo ebbe un ruolo importante nella storia della città, diventando teatro di un evento diabolico che lasciò qualche segno.
Il 24 settembre 1821, il cittadino Giuseppe Gervino fu infine condannato in contumacia alla pena di morte, ma fortunatamente la somma punizione non fu mai eseguita per la sua fuga; venne, tuttavia, giustiziato in effigie sul ponte che attraversava il vallone di San Giovanni al Giro dello Zuccotto (“al gir dal sucòt”). Una cerimonia solenne, ma finta “in effige”, un po’ simbolica e un po’ ironica, fatta nel tentativo patetico di imitazione, durante la quale un fantoccio raffigurante il Gervino fu impiccato, segnando quel luogo con il nome “al pont d’la fúrca” (il ponte della forca) da parte dei valenzani.
Nel corso del tempo, il parziale riempimento e la discussa sistemazione del vallone di San Giovanni hanno permesso la costruzione di importanti luoghi della città, come Largo Machiavelli e via Camurati. Oggi, di questo tratto originario di Valenza rimangono solo alcune porzioni, tra cui quella in cui sorge il Palazzetto dello Sport e il tratto finale, oltre viale della Repubblica, tra viale Padova e viale Brigate Partigiane.
Questo episodio storico, legato all’esecuzione di Gervino, nella sua inutile idiozia ha lasciato un ricordo, segno indelebile nella memoria collettiva di Valenza, contribuendo a plasmare una certa identità e la geografia urbana della città. Il ponte della forca, oggi scomparso, è rimasto impresso come appellativo nella toponomastica locale, a testimonianza di un evento che ha profondamente segnato la storia di questo luogo.