Soprannomi valenzani del primo Novecento
Il curioso approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – In un momento complicato come quello odierno, che obbliga a complessi equilibrismi pur di non offendere sensibilità personali o idee collettive, l’ironia ha il potere, ma che dico il dovere di riappropriarsi della propria peculiarità più profonda: la capacità dissacrante. Senza scadere in banali cliché o triti luoghi comuni, questo è un ritratto con ironia, distaccata e scanzonata, di curiosi personaggi valenzani di quasi un secolo fa, già ben descritti dal celebre valenzano Saverio Cavalli (C’era una volta….), senza voler oltraggiare nessuno ma facendo così capire di tenere assai al ricordo di loro. Questa vivace e variegata comunità, radicata a Valenza, che costituiva il cuore pulsante della vita sociale della città, ci ha lasciato una vera e propria fucina di tradizioni, passioni e identità locali.
Ai tempi di cui si parla, quasi ogni persona aveva un soprannome che era tramandato di generazione in generazione. Spesso il soprannome rifletteva la professione della persona, come “il lattoniere”, “il figlio del lattoniere” o “la moglie del lattoniere”. Lo stesso accadeva per altre professioni. Alcuni soprannomi, invece, erano dovuti a caratteristiche fisiche peculiari o a somiglianze con personaggi famosi della cronaca, della storia o della cultura popolare. Per esempio, il severo e inflessibile maresciallo dei carabinieri di un certo periodo era chiamato “Mac-Mahon“, con riferimento al famoso generale francese che sconfisse gli austriaci a Magenta durante la seconda guerra d’indipendenza italiana. Il rigido e arcigno segretario comunale, magro e alto come un palo di cemento veniva invece soprannominato “Piccard” per la sua somiglianza con l’esploratore svizzero.
C’era poi il caso di Gasista, che portava sulle spalle il soprannome del nonno, il quale a sua volta lo aveva ereditato dal bisnonno, e che alla fine era finito a fare il valente barbiere. I personaggi con soprannomi bizzarri e ispiratori di scherzi erano davvero numerosi. Accanto a questi, però, ce n’erano molti altri i cui nomignoli risultavano del tutto indecifrabili, come “Patujja”, “la Facina”, “la Maì”, “la Tulla” e “Bicci”, solo per citarne alcuni. Questi nomignoli, così enigmatici e difficili da decifrare, contribuivano a rendere ancora più affascinante e variegato il panorama degli appellativi personali di quel periodo.
In quegli anni, tutti gli abitanti del luogo erano veri e propri protagonisti della scena locale, figure di spicco che si muovevano su quel glorioso palcoscenico delimitato da luoghi iconici come la “Lea di balì”, il “Spiasarè”, “Al col franch”, “Al spianà”, “Al pont d’Cilicca” e “Al prà dla Svigerin-na”. Ognuno di loro aveva il suo ruolo ben definito, occupando uno spazio preciso nelle vie, nelle case, nei negozi, nelle fabbriche, nelle osterie e nelle baracche.
Erano individui radicati nella loro comunità, come statue o monumenti che non si spostavano mai dal loro posto, diventando parte integrante del paesaggio urbano. Queste figure, con le loro storie e le loro abitudini, erano l’anima pulsante di quel contesto e davano vita a una vivace e variegata realtà locale. Tipi ameni, gente spensierata che passava il tempo a combinare scherzi, beffe, sfide, provocazione e canzonature a volte crudeli. Ognuno di loro portava con sé un pezzo della memoria collettiva, tramandando tradizioni e modi di fare che si trasmettevano di generazione in generazione. Nonostante i cambiamenti e le trasformazioni che il tempo inevitabilmente porta, questi personaggi rappresentavano un punto fermo, un ancoraggio saldo a un passato che ancora risuona nelle strade e nei vicoli di Valenza. La loro presenza costante conferiva all’ambiente un senso di familiarità e di appartenenza, creando un’atmosfera unica e affascinante per chiunque vi si affacciasse.
Partendo dal nostro amato fiume, non possiamo dimenticare la figura leggendaria di Bertu, il principe del remo. Abile e temerario, egli rincorreva e raggiungeva con la sua piccola barca i tronchi strappati dalle sponde del Po in piena. Una volta catturati questi tronchi, Al Bertu li legava saldamente alla poppa della sua imbarcazione e li riportava alla sua baracca, diventando così un prezioso fornitore di legname per la comunità. Mentre Al Carlì, in maniche di camicia, nel periodo invernale spaccava il ghiaccio che ancorava la barca alla sponda del fiume per andare a cercare le anatre.
E poi c’era il mitico Musolino, un cacciatore e pescatore di fama, una figura davvero imponente e affascinante. Alto, dritto come una quercia, con un portamento elegante e un’aura di maschia durezza, Musolino tornava dalle sue battute di caccia e pesca nelle gelide mattine di gennaio con la lunga e canuta barba bianca ricoperta dalla brina che scricchiolava come una matassa di paglia di ferro.
Il più abile cacciatore di lepri era però Al Capè. Alto e magro come un’acciuga cacciava tutto il giorno scalzo; fermo in un campo, sembrava uno spaventapasseri.
Nell’osteria locale, i veri leader erano personaggi altrettanto iconici come C… il più grande asciugalitri della zona, altri ostaggi del mezzolitro erano La Mesa (quasi la metà di un uomo normale), Bidì (grandissimo incisore e compositore di filastrocche), Brugneta, Al Begò e Jacomo, un veneto giunto con le prime ondate migratorie che alla gara di San Giacomo del 1930 stabilì il record delle bevute. La sciura Gervin-na è stata la prima donna di Valenza a frequentare le taverne. Intelligente e colta, aveva un caratteraccio che teneva testa agli uomini con cui giocava a tresette, prosciugandosi un mezzolitro. Morì a novant’anni suonati dopo aver fumato per tutta la vita.
Attorno a questi carismatici leader si radunavano i loro seguaci, i veri adepti, formando gruppi ben definiti e divisi secondo i propri interessi socioculturali: chi preferiva gli stornelli, chi i canti popolari, chi le operette, chi le canzonette e chi, arrabbiato cronico, la villania. Amici e nemici, tutti insieme appassionatamente, dialogando o litigando. La parola d’ordine per tutti era una sola, categorica e impegnativa: tracannare vino più che si poteva.
Altri personaggi locali erano figure davvero uniche e memorabili. C’era ad esempio Biò, un uomo alto e possente come un condominio, nato in una stagione particolarmente avversa ma diventato celebre per aver accidentalmente segato un dito alla figlia mentre lei lo aiutava al suo banco da falegname. Girumeta parlava alle masse sulle panchine del viale.
Donna piccola, una negoziante modista formato tascabile, La Modestì era sempre sorridente e destava simpatia solo a guardarla. Sapeva il nome di tutti i valenzani, forse anche quello dei cani.
Al Set bel o Bambola era una bomba, testa di Marilyn Monroe, tette di Carmen Russo, culo di Nadia Cassini. Il resto puoi immaginarlo, mentre Al Lisan-nder, un quotato orefice, era bello, alto, elegante, piaceva molto alle donne e proprio queste gli procurarono grossi guai.
Da ricordare ci sarebbe anche una cassiera del cinema che di femminile aveva soltanto il nome. Sbozzata rozzamente, mal finita nei particolari che distinguono il sesso, sembrava messa insieme con elementi destinati ad altre persone, tanto erano sproporzionati.
L’unico “Pustì” del luogo in quel periodo, era noto per il suo insolito metodo di recapitare la posta: anziché consegnare le lettere direttamente ai destinatari, le affidava a chiunque si trovasse nelle vicinanze della casa del destinatario, pregandolo di provvedere alla consegna nell’arco della giornata. Talvolta capitava persino che infilasse le missive direttamente nelle bocche dei cani randagi che si trovavano a passare vicino al monumento di Garibaldi, la cui base sembrava fatta apposta per farli sostare e orinare.
Alla stazione c’era una sorta di facchino (C…) sempre pronto a dare una mano, anche se in realtà era più spesso ubriaco che sobrio. Prima di riuscire a trovarlo al bar per chiedergli di aiutare i passeggeri con i bagagli, era una consuetudine gettargli un secchio d’acqua in testa per farlo rinsavire e rimettere in sesto.
Non si può dimenticare la Palina, un’ambulante che non parlava mai, ma si esprimeva con un linguaggio fatto di gesti e segnali come un sordomuto, e i due inseparabili amici Ciuanì e Luvisì, di cui uno era quasi cieco e l’altro assai sordo. Si aiutavano a vicenda in un rapporto encomiabile. I guai grossi vennero quando, incapaci di valutare le proprie azioni senza prevedere le conseguenze, decisero di andare a caccia insieme.
Al Braghì era il “big” del loggione, una figura chiave della cultura locale. Osservatore acuto ed esigente, era il critico musicale per eccellenza, commentando con dovizia di particolari ogni sfumatura dei testi e cronometrando con precisione millimetrica gli acuti dei cantanti. Era il vessillifero degli applausi e dei fischi, il mossiere che dava il via alle ovazioni del pubblico. Nulla sfuggiva al suo occhio attento, anche se ne possedeva uno solo.
Il fabbro Bastià, baritono pressoché di professione, era la voce solista nelle messe solenni e corista nel teatro sociale. Trascorreva le sue giornate cantando romanze liriche davanti alla bottega, dall’alba al tramonto. Quando un pezzo gli riusciva particolarmente bene, non esitava a regalare al pubblico un bis generoso.
Uno scansafatiche patentato era invece Barbon farin-na, tornato dall’America dopo un fallimentare tentativo di fare fortuna. Sosteneva che in quel paese, per guadagnare, bisogna lavorare come da noi, ma per non fare nulla si stava decisamente meglio in Italia. Non aveva mai lavorato un solo minuto in tutta la sua vita, eppure era un personaggio simpaticissimo, amato da tutti. Con un cartello in mano che recitava “Vogliamo la riduzione dell’orario di lavoro”, sarebbe probabilmente piaciuto persino a Landini. Anche Calissu era in collera con il lavoro, durante l’occupazione tedesca scappò vestito da frate.
Padlì era il panettiere dallo sputacchio facile, un vero recordman. Dall’osteria di Piccioni lanciava direttamente giù dalla rocca a trenta metri oltre il viale e nelle giornate di grazia raggiungeva il tetto dell’officina del gas. Il vecchietto dei western con uno sputo faceva ballare le lattine di birra, Padlì faceva ballare i paracarri.
Quando era di turno un certo tranviere i viaggiatori andavano alla stazione a piedi, sapevano che prendendo il tram avrebbero perso il treno. Nel percorso piazza Duomo-Stazione, con fermate al Caffè Garibaldi, al bar Sport e al Leon d’Oro, si fermava a pisciare anche contro tutti i pali del telegrafo disponibili sulla linea per via di una prostata fuor del comune, eccezionale, singolare, una prostata da museo, una roba d’autore che da qualche parte doveva essere firmata.
Famoso era il suggeritore Rapù, celebre per aver suggerito la famosa battuta: “Sedetevi, col sedere si ragiona meglio”, a un attore d’avanguardia culturalmente impegnato che ci è cascato come un cretino.
La Gran-na, celebre per la sua stangata, forte e vigoroso passò alla storia per aver mandato la palla fin nella roggia di Valenza calciando un rigore al campo sportivo comunale. Quando tirava in porta, rischiava di sfondare la rete o ammazzare il portiere.
Poi ancora personaggi come Canigì, Begò, Marianì, Buscatt, Predica, Bulugnì, Bugì, Topè, Merlanì, AIvigini, Nadalì, Al Nando dla moda, Rampì, Pajasì, Paitass. al sop dla Brugn-na, Al Canterì e Al Leò, tutta gente che ha avuto una collocazione ben precisa nella storia del folclore. E la Mora? La pollivendola del mercato coperto, una grassona simpaticissima sempre sorridente che aveva una parola buona per tutti.
La Cicivaca invece sembrava un manico da scopa vestito di stracci ma ben pettinata alla garçonne, oggi avrebbe le misure femminili ideali; vendeva rane e pesci d’acqua dolce. E già che siamo sul mercato è d’obbligo ricordare Squarsò, Al Stufmi, e l’immancabile coppia Nuvolari e Cicotu, trasportatori ufficiali delle merci dal mercato ai negozi.
Un discorso a parte lo merita Al Basgnanì, per gli amici Vigino. Impersonava il fixing della frutta e verdura sulla piazza. Personalità spiccata, sempre di buon umore, ilare, sorridente, capace di infondere gaiezza anche a un politico depresso. E la chiromante che faceva il gioco delle carte e leggeva la mano per appuntamento… Diceva che per avere la concentrazione necessaria doveva fissare le sedute almeno otto giorni dopo la richiesta. Una balla. Nel frattempo sguinzagliava le sue comari che in breve le portavano tutti i ragguagli necessari per abbindolare la vittima; dall’età al luogo di nascita, vita e miracoli della famiglia, malattie, professione, condizione sociale, infanzia, amori leciti e illeciti presenti e passati. Indovinava sempre.
Al Chilì era il portiere dell’ospedale Mauriziano ai tempi in via Pellizzari. Severo e irreprensibile, faceva tutti i turni da solo, giorno e notte. Seduto sul paracarro dell’ingresso, diagnosticava i malati prima di farli entrare.
Proverbiale per la sua forza fisica, il carrettiere Pidron’balì (per gli amici Ricu) con una spallata riusciva a rimettere in carreggiata un carro pieno di ghiaia. Poteva prendere in braccio anche un’edicola.
L’acchiappone Conte, battezzato così dai suoi fratelli carrettieri, sempre elegantissimo con i baffetti alla Rodolfo Valentino, era considerato il Re del liscio. Il suo cavallo di battaglia era la Cumparsita, ma diventava irresistibile in Besame mucio, mormorando le parole della canzone all’orecchio della pupa.
In sostanza, un vero e proprio caleidoscopio di personaggi bizzarri e indimenticabili, che nascondevano spesso un’anima tutt’altro che elevata, ma che hanno contribuito a rendere unica e colorata la vita di Valenza. Tutta gente ormai nel Regno dei Cieli, scaltra, piena di spirito e saggezza, che ora ci fa sorridere.