Le feste di San Massimo e San Giacomo a Valenza
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – La festa patronale è un’occasione per festeggiare il santo e rinnovare lo spirito identitario di una comunità, ribadendo tradizioni che non si vogliono perdere e che si tengono dentro: ha avuto un altissimo valore simbolico, poiché si collegava ad antichi riti propiziatori e di purificazione legati anche a lontane cerimonie pagane.
Col nuovo modo di vivere ha ormai perso il significato di solennità e di celebrazione, anche se per molti resta un ritorno alla tradizione, anche con iniziative grottesche, e a certi vecchi valori che la civiltà dei consumi ha modificato in uno stile di vita finto, raffinato, al limite del degenerato.
Valenza possiede ben due santi protettori: San Massimo e San Giacomo. Fin da tempi remoti, il patrono di Valenza è stato San Massimo, ma, sul finire del sedicesimo secolo, gli viene affiancato un altro patrono, San Giacomo.
Pertanto, la festa patronale di San Giacomo non è così antica come quella di San Massimo, che è menzionata più volte negli antichi statuti di Valenza del 1397 e in essi già ritenuta risalente alle vicende iniziali dell’era cristiana. La festa di San Giacomo Maggiore risale agli inizi del dominio spagnolo a Valenza, nel Cinquecento; è il venerato Santo patrono di Spagna – Jacopo è il Santiago degli spagnoli, l’apostolo sepolto a Campus Stellae – festeggiato dalla Chiesa cattolica il 25 luglio. Non dimentichiamo che la distrutta chiesa di San Giacomo in Valenza, edificata nel 1574 e nel 1585, era considerata la cappella votiva degli spagnoli, il luogo in cui venivano sepolti governatori e titolati ufficiali iberici. Inoltre va messo in evidenza che, in modo curioso, nel Duomo di Valenza esiste l’altare di San Giacomo Minore, anch’egli uno dei dodici Apostoli di Gesù Cristo, spesso confuso come protettore con il maggiore.
La festività dell’altro patrono San Massimo, celebrata l’8 gennaio, è stata, sin dal Medioevo, uno straordinario momento di unità per tutta la popolazione valenzana, durante la quale si notava l’accostamento tra le diverse arti e professioni e i diversi ceti sociali in una grande festa al tempo stesso religiosa, popolare e profana, quasi un momento di rilancio dopo le festività natalizie appena concluse. A San Massimo si attribuisce il merito di aver salvato la popolazione valenzana dai barbari all’inizio del Cinquecento, dando origine al nuovo centro abitato in una posizione più facilmente difendibile, il rione Colombina. Nel basso Medioevo, sono molte le feste popolari fatte anche di atti propiziatori e celebrazioni di ringraziamento per gli scampati pericoli; sono momenti d’incontro per la cittadinanza, di folclore, di spiritualità e di ardenti tradizioni. In queste occasioni, il popolo non lavora e si abbandona a bevute, scherzi, canti corali e danze semplici, basate su passi ritmici e figure ripetute, eseguite in girotondo o in fila, con fremiti d’emotività altamente imperfetti.
La cerimonia speciale, regolata dagli antichi statuti approvati da Gian Galeazzo Visconti nel 1397 e successive modifiche nel 1494, nel 1553 e nel 1585, seguiva precise disposizioni in merito alla preparazione di ceri decorati con fiori, colombe e altri motivi sempre in cera. Inoltre, prima e dopo l’offerta dei ceri, si dovevano condurre per Valenza un bue e un asino ornati con stoffe, drappi, ghirlande e corone di mele e di aglio. La processione partiva dal Palazzo comunale, percorreva la via Maestra (corso Garibaldi) fino alla chiesa di San Francesco (piazza Verdi), quindi imboccava la strada che conduceva alla porta di Santa Caterina (via Alfieri), voltava nuovamente a sinistra, passando davanti al monastero dell’Annunziata (via Cavour) e infine, risalendo la strada della porta Po, arrivava in piazza del Duomo. Il rito, frutto della mentalità giudaico-cristiana, si concludeva con il canto dei vespri.
Nei secoli XV e XVI, la festa patronale valenzana s’impone come mercato temporaneo di speciale d’importanza per il commercio, ragion per cui i governanti locali concedono l’esenzione da dazi e gabelle per rendere più convenienti i prezzi delle merci vendute. Questo privilegio stimola l’afflusso di compratori dall’esterno, attratti dalla possibilità di risparmiare e di concludere affari in modo più conveniente. Si festeggia anche con semplici atti d’allegria o con dimostrazioni di gioia per l’arrivo di persone care.
L’evento, strutturale e permanente, ancora compenetrato dalla sacralità del rito, si svolge nella piazza del Duomo; in seguito, poiché diventa sempre più rilevante, si deve tenere fuori alle mura. Nel 1700, anche l’antica e gioiosa fiera di San Bartolomeo è spostata in estate, in prossimità dell’altra di San Giacomo.
Mentre la festività di San Massimo mantiene sempre una spiccata caratteristica religiosa, quella di San Giacomo, anche per la stagione più propizia, assume sempre di più connotati di festa popolare e, soprattutto, di fiera agricola-commerciale. Nel 1851 la vecchia sagra-fiera d’agosto di San Bartolomeo viene definitivamente accorpata dal Comune a quella di San Giacomo che prende il nome esclusivo e definitivo di festa patronale locale.
A fine Ottocento i festeggiamenti, sempre più vicini al divertimento e al passatempo, si svolgono in Piazza del Diamante, la cosiddetta “Spianà” o “piasa di Baracò”, che per l’occasione diventa la cittadella dei divertimenti, e nella zona di Porta Alessandria- viale Umberto I, ora piazza Gramsci-viale Oliva. A Valenza s’installano giostre trainate da cavalli, altalene, bersagli, tiri a segno, batti-mazza e bancarelle di vendita. Si esibiscono saltimbanchi, nani, minoranze etniche, giganti umani, fenomeni scheletrici o superobesi e si espongono donne flessuose o donne cannone di circa 200 kg, un’accozzaglia di anomalie pietose e sproporzionate, di veri mostri e di povere bestiole ammaestrate. Intorno alle bancarelle di bibite e cocomeri si affolla la gente assetata e in cerca di refrigerio. È il momento dei sogni, è raccolto tutto ciò che sa di magico, di raro e di meraviglioso; come potessero trovare il modo di esserci tante distrazioni nei pochi giorni di San Giacomo non è cosa facile immaginare.
Nei primi anni del Novecento appare il cinematografo ambulante, che sostituisce le ombre cinesi, dove, a causa del caldo atroce, ventagli e fazzoletti erano sempre in movimento; si diceva impropriamente che fosse “un divertimento da baracconi”, ma qualche astante sembrava santa Caterina in estasi. Molto apprezzato il padiglione del ballo a palchetto fuori Porta Alessandria (l’antica porta Astigliano), che assume un ruolo centrale nella sagra; accanto, in piazza Italia, ora Gramsci, c’è il circo, il toboga e le giostre, che ora sono a motore. Non mancano gli eventi sportivi ed è sempre presente, per diversi giorni, il mercato bovino ed equino, un panorama di magnifici buoi, fulgide mucche e brillanti cavalli che fa gola agli esperti, con assegnazione di premi per gli animali più pregevoli e incessanti applausi dal numeroso pubblico presente.
Le vie e le piazze sono affollate; nell’insieme, la prolungata manifestazione è frequentata da migliaia di persone. Tanti valenzani lontani dal paese natio ritornano per onorare la tradizionale e magnificata festa patronale, disseminata da colpi di scena, con amici e parenti. Ogni tavola è imbandita, con l’aiuto del vino, ma senza la pasta in brodo o il minestrone: il santo patrono merita un menù speciale. Poi, unitamente, ci si reca al caffè a gustarsi un gelato, per alcuni forse l’unico dell’annata. La famiglia è ancora un insieme transgenerazionale, l’arcitrave più solida di questa società.
Tra i vari divertimenti, non manca il peccaminoso, spesso con effetti comici. All’epoca si raccontava, in modo caricaturale, che un anno arrivò un fortunato e ingannevole baraccone che concedeva per un soldo la vista della “bella Virginia al bagno”, e i nostri antenati maschi, che sussultavano già solo alla vista di una caviglia femminile, entrarono in gran numero, convinti di potere avere una visione erotizzante, ma si trovarono di fronte a un sigaro “Virginia” immerso in un vaso d’acqua. Quasi tutti non fiatarono all’uscita per non essere presi in giro e non pochi descrissero il contrario della realtà vista per coinvolgerne beffardamente gli altri pavoni, con grandi risate.
Durante il baldanzoso regime, il mese di luglio e la festa di San Giacomo continuano a essere un periodo di abbondanti giochi, divertimenti, esibizioni bandistiche, transazioni ed esposizioni agricole, un grande parco di divertimento estivo che offre gioia e spensieratezza; dopo il 1935, però, le sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia, causano qualche ristrettezza anche a Valenza.
Più tardi, dopo che molti valenzani si sono addormentati in camicia nera e poi si sono risvegliati ferventi antifascisti, nella seconda parte del Novecento, ci pensano le feste di partito, importante è quella dell’Unità, e l’ormai abituale villeggiatura estiva a distrarre il pubblico valenzano dai festeggiamenti di San Giacomo, ormai a poco a poco manchevoli della pista da ballo, del circo, dei baracconi e di tante attrazioni divenute fuori moda, mentre restano giostre, autoscontro, tiri vari e qualche bancarella di vendita. Aumenta, invece, la promozione di vari spettacoli gratuiti (concerti) da parte del Comune in diversi punti del centro cittadino e in alcuni anni ci sono anche costosi fuochi pirotecnici. Se c’è chi desidera lasciarsi coinvolgere dalla frenesia di queste giornate, c’è pure chi fugge dalla calca, dai suoni rintronanti e dalla troppa gente per le strade.
Nel nuovo millennio, lo scenario avvizzisce sempre di più: i San Giacomo non sono più quelli di una volta, quando il centro cittadino si trasformava in un luna park, con spettacoli per tutto il mese di luglio che attiravano quelli con le tasche non troppo piene perché quelli ricchi erano già fuggiti nelle seconde case al mare o in montagna. Ora sono facsimili malriusciti delle belle serate che furono. In questi anni recenti le manifestazioni si sono ridotte a pochi momenti serali. È pur vero che, per una buona parte dei valenzani, queste rievocazioni sono considerate spettacoli stravecchi, straconsumati e carenti di sinergie, ma non esiste dispersione definitiva finché dura il ricordo.
Dopo un lungo periodo d’interruzione, la solenne celebrazione religiosa di San Massimo, con una certa pompa e qualche sopravvivenza di cerimoniale antico, è stata riproposta nel 1985, posticipandola all’ultima domenica di gennaio per evitare la vicinanza con l’Epifania. Tuttavia, con il crollo del sacro e delle tradizioni religiose, la festa patronale di Valenza ha ormai perso il significato di solennità e di rito nella sua accezione originaria e precisa.
È finito il tempo dei culti vacui, è cambiata la società, i suoi valori e, soprattutto, il modo di vivere; tra ateismo, agnosticismo e una strampalata banalità di circostanza, siamo incapaci di difendere le nostre radici e la nostra identità. Certa gente è ormai sospinta dalla paura alla solitudine domestica. Purtroppo, così va questo mondo ostile e inferocito.