Tre film per il 25 aprile
CINEMA – È proprio a cavallo dei due decenni sospesi fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo che viene maturando, nel cinema, quel nuovo, più consapevole e attento approccio alle tematiche resistenziali che affonda le proprie radici nel cinema d’impegno sociale e civile di fine anni Sessanta e dell’intero decennio dei Settanta.
A partire, nell’ambito della storiografia sulla Resistenza, dalla piccola, fondante rivoluzione copernicana del testo dello storico ed ex partigiano Claudio Pavone, “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” (1991), in cui per la prima volta viene sdoganata la definizione – mai osata in passato e mal accolta anche al momento della pubblicazione dello studio – di ‘guerra civile’, proposta sino a quel momento, con evidenti scopi devianti, solo dalle posizioni critiche di chiara ispirazione fascista.
Sul finire degli anni Novanta – preceduto da un piccolo gruppo di pellicole che già si pongono, pur con alcuni limiti di fondo, nella direzione di un’indagine sul passato il più possibile scevra di retorica come di facili estremismi (vedi “Il caso Martello” di Guido Chiesa, 1991, “Nemici d’infanzia” di Luigi Magni, 1995, e “Porzus” di Renzo Martinelli, 1997) – esce nelle sale “I piccoli maestri” di Daniele Luchetti (1997), tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello (1964).
Con “I piccoli maestri” Luchetti inizia quell’operazione memoriale sulla Resistenza – condotta soprattutto attraverso il filtro dei ricordi della generazione di chi, all’epoca, era poco più che ventenne – che caratterizzerà negli anni a seguire la maggior parte delle pellicole sul tema.
Il film racconta, in maniera abbastanza asciutta e incisiva, senza indulgere a retoriche e sentimentalismi ma neppure annullando totalmente l’espressione delle emozioni dei protagonisti della storia, il percorso “bellico” ed esistenziale di un gruppo di amici e studenti universitari vicentini (i “piccoli maestri” del titolo) che nell’autunno del 1943 decidono di unirsi alle file dei partigiani combattenti sull’altopiano di Asiago. A Gigi (Stefano Accorsi), Simonetta (Stefania Montorsi) e Enrico (Giorgio Pasotti), legati fra loro da vincoli sentimentali oltre che ideologici, si uniranno altri ragazzi, con il comune intento di «…resistere, con le parole, con l’intelligenza, ma anche con le armi…ne va della nostra libertà e dei nostri figli…l’Italia vera adesso siamo noi».
Nel corso di un lungo inverno sulle montagne, sino alla liberazione di Padova poco prima dell’arrivo delle forze alleate, sperimenteranno il vero volto della lotta di liberazione, il dolore, la morte, la fatica e il senso di inutilità, di scacco e di sbandamento nei confronti di una realtà feroce e troppo idealisticamente intesa.
Vero e proprio romanzo di formazione (analogamente al “Partigiano Johnny” di Chiesa, 2000), “I piccoli maestri” mette in luce, oltre alla confusione generale che albergava tra le diverse file della Resistenza (con il frequente passaggio dei giovani partigiani da un gruppo con una determinata coloritura politica a un altro, solo per ragioni di contingenza), l’onestà morale e intellettuale, il bisogno di coerenza e di eticità di una generazione che si è trovata, senza alcun preavviso ma con un enorme spinta all’azione, coinvolta in una vicenda complessa e multistratificata, ancora oggi difficile da collocare nell’alveo delle vicende di quel momento storico.
La pellicola, giudicata dalla critica appena un po’ meno incisiva, in alcuni passaggi, rispetto al romanzo di Meneghello («…Nel film soltanto la battaglia conclusiva in piazza e l’arrivo degli inglesi risultano goffi; rispetto al libro di Meneghello, mancano lo spirito e il linguaggio veneti, l’essenza della “guerra per bande” come l’intendeva Mazzini, i radicali dubbi politici. Manca pure la vitalità crudele della prima giovinezza: gli interpreti, tra i quali Stefano Accorsi è il migliore, avranno una decina d’anni più dei personaggi, e questo fa una differenza» – Lietta Tornabuoni, “La Stampa”, 8 settembre 1998), sospende – come, del resto, le altre opere degli anni successivi – ogni giudizio morale, mantenendosi in territorio neutro rispetto agli eventi descritti.
Il nemico, lo straniero, è quasi sempre una figura fantasmatica, incombente ma dai contorni irregolari (analogamente a “Il partigiano Johnny”) e non viene commesso l’errore di cadere in una caratterizzazione troppo spinta e stereotipata, già proposta a più riprese dalla cinematografia precedente.
Significativo è il dialogo finale tra Gigi e Marietto (Massimo Santelia), nel quale si adombra la coscienza comune dell’irripetibilità dell’esperienza, nonostante la sua ormai evidente drammaticità: «Ho l’impressione che da adesso in poi non avremo più niente di meglio dalla vita».
“I nostri anni”, è, invece, il titolo cui Daniele Gaglianone affida, nel 2000, l’emblematica sintesi dell’esperienza resistenziale che ha tramortito e sconvolto le vite dei due anziani amici (realmente) ex partigiani Alberto (Virgilio Biei) e Natalino (Piero Franzo): il quale fa filtrare, però, anche una semantica più allargata, in cui si concentra il messaggio del film.
«Sui monti ci sentivamo liberi, ci sentivamo una cosa sola con gli alberi, le pietre, i fiumi. Sembrava che tutto fosse lì solo per te. L’aria aveva un altro odore, ed è quello che dopo ti frega: basta respirare quell’aria una sola volta che ti sembra di soffocare per tutto il resto della vita. Non te lo dimentichi più».
Si soffoca, infatti, nella pellicola di Gaglianone: vittime e carnefici non riescono a respirare, nella medesima maniera. Soffoca Alberto, vagante e smarrito all’inizio della storia, tra stazione e binari, tra voci, volti, abbagli e ombre della propria memoria, sino all’incontro – nell’ospizio di cui è stralunato ospite – con Umberto.
Soffoca lo stesso Umberto, ex ufficiale fascista, piegato, con il respiro mozzo, su di una sedia a rotelle, e Natalino, che vive da lupo solitario sulle montagne piemontesi, dove ha combattuto da ragazzo.
I tre, per uno di quegli strani scherzi del destino, si ritrovano insieme, per una sorta di ultimo ‘rendez vous’: e, alla fine, è la marea prepotente del ricordo che arriva a soffocare anche chi guarda.
“I nostri anni”, come un film surrealista, a guisa di un novello “Un chien andalou”, è un’opera onirica, astratta, che mescola frammenti, di sogni, di memorie, di visioni interiori e paesaggi reali, in un continuo andirivieni spaziale e temporale: una sorta di lungo flusso di coscienza che viene esteriorizzato da una fotografia (dell’ottimo Gherardo Gossi) in bianco e nero, sgranata e tremolante come nei vecchi filmini in super otto, da un montaggio non consequenziale, dalla sovrapposizione di voci, ansimi, rumori, da un doppiaggio fuori sincrono, in una saturazione totale dell’immagine, ai limiti della leggibilità.
La storia, amarissima, si chiude su dei sorrisi, quelli di Alberto e Natalino (quello dell’amico Silurino nella loro memoria), che sembrano farsi beffe di una società e di una storia che li ha rapidamente dimenticati: «Lo spirito della Resistenza! Oggi tutta questa storia interessa poco a noi che l’abbiamo vissuta, figuriamoci agli altri! Non è rimasto niente. Lapidi, corone rinsecchite, bei discorsi. Non frega più niente a nessuno…».
Eppure Gaglianone, come Luchetti e Chiesa, sembra voler andare, sotto questo aspetto, “in direzione ostinata e contraria”: nel recupero (anche a livello estetico e parzialmente neorealista) di una dimensione memoriale mondata dal tempo che ci separa da quegli eventi.
Il senso dell’operazione, non solo filmica, sta nella chiusa che leggiamo a “I nostri anni”: «I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia».
La stessa considerazione proviene, a distanza di anni, dall’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, con il racconto della Grande Guerra (“Torneranno i prati”, 2014): «Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po’ tornerà l’erba sui prati…».
Contro la tentazione della rimozione e dell’oblio – come sottolinea con forza anche Margarethe Von Trotta nel suo “Hannah Arendt” (2014) – non vale soltanto la forza del ricordo, ma anche quella del pensiero, della riflessione su ciò che è stato. Quella che permea, fuor di retorica, il racconto dell’eccidio di Monte Sole in provincia di Bologna (la strage di Marzabotto, avvenuta tra il 28 settembre e il 5 ottobre 1944 ad opera dei nazi-fascisti sulle popolazioni civili), di cui Giorgio Diritti nel 2009 mostra i prodomi in “L’uomo che verrà” («volevo far fare agli spettatori un viaggio nel 1944»).
La storia è vista (letteralmente, perché non parla dalla prematura morte di un fratellino) e narrata in voice over da Martina (Greta Zuccheri Montanari), una bambina di otto anni che vive, tra solitudine e momenti corali, il quotidiano trascorrere del tempo di una comunità contadina alle pendici del Monte Sole: le favole magiche e spaventose ascoltate d’inverno nella stalla, mentre le donne intrecciano fascine; la neve che cade di notte, dal cielo plumbeo; le rondini che tornano a percorrere il cielo in primavera; il giorno in cui si uccide il maiale e quello in cui si cuce il vestito per la prima comunione. È una comunità al femminile, quella di Martina, dove gran parte di quello che accade passa attraverso gli sguardi (e le parole, pronunciate in dialetto bolognese) della nonna, della mamma Lena (Maya Sansa), della zia Beniamina (Alba Rohrwacher), che Diritti filma con quel ritmo lento, quell’attenzione alle azioni minime e quel rispetto che l’esperienza dell’olmiana Ipotesi Cinema gli ha lasciato.
Scrive Martina in un tema: «I tedeschi hanno le armi e sparano contro il nemico, che non so chi è»; e così Armando, il papà di Martina, in risposta al padrone del podere che coltiva («è la Storia che è piena di guerre…»), sbotta: «chi se ne frega della Storia e di chi la fa? Che storia è questa?». Diritti ritrae, come stando in punta di piedi su una soglia ma anche con grande eppure delicata partecipazione emotiva, l’inconsapevolezza: dei civili prima di tutto, e poi delle milizie partigiane, le cui azioni mettono in serio pericolo le vite degli abitanti della valle, e forse anche quella dei soldati semplici tedeschi, che Martina e suo padre trovano a giocare con delle uova in cucina, passando nei loro occhi quando gli viene intimato di far fuoco su donne e bambini.
Un’inconsapevolezza tragica, comune alle altre storie sulla Resistenza raccontate dalle pellicole dell’ultimo decennio prese in esame, cui fa il paio un’altra questione, evidenziata dalla battuta lapidaria di un comandante nazista: «è una questione di educazione: tutti noi siamo ciò che ci hanno insegnato ad essere».
Come sarà, che cosa diventerà, allora, ‘l’uomo che verrà’? Per capirlo e, nello stesso tempo, per continuare a mantenere vivo nella memoria ciò che è avvenuto, forse il miglior modo è quello di cullarlo e di prestargli ascolto, come fa Martina nell’ultima inquadratura del film.