La scuola a Valenza nel Cinquecento
Un nuovo balzo nella storia della città
VALENZA – Nel Cinquecento sforzesco si sviluppa considerevolmente la cultura e la scuola, i dotti e gli artisti si mescolano ai guerrieri dell’epoca. Si afferma un nuovo modello educativo che si distingue dalla tradizionale istruzione medioevale di tipo ecclesiastico ed è incentrato sulla persona, sulla natura e sulla cultura classica (greca e latina). Ma, purtroppo, l’organizzazione scolastica nel nostro territorio è ancora troppo anarchica e molti insegnanti, pur provvisti di una palese superiorità morale, hanno una preparazione insufficiente e ricorrono spesso a metodi vecchi e inadeguati.
Il sistema educativo delle nostre parti è diviso fra scuole ecclesiali, private e comunali. Crescono come il tasso d’alfabetizzazione, anche se non sono ancora molti i ragazzi che continuano gli studi dopo i dieci anni.
Pressoché scontata è l’esigenza di denaro per promuovere e realizzare questo fondamentale servizio e bene collettivo. A Valenza è elevato il contributo di carità dalle grandi e agiate famiglie, finanche per affermare la loro posizione sociale: un connotato manifesto dell’orgoglio valenzano. Anche se non pochi, e non solo in quest’epoca, dopo aver gozzovigliato e fornicato per una vita da favola, in barba ai Dieci Comandamenti e ai Precetti della Chiesa, vedendo avvicinarsi la fine, divengono generosi nella speranza di procacciarsi un trattamento di favore nell’aldilà. Di questo “altruismo valenzano” e sostegno economico ne beneficiano particolarmente gli organizzatori scolastici privati, pubblici e, soprattutto, religiosi di quest’epoca.
Tra i più bendisposti donatori e mecenati locali troviamo in questo periodo: Alessandro Gattinara, Giovanni Battista Basti, Vincenzo Annibaldi, Giacomo Vincenzo Stanchi, Giacomo Lana, Giovanni Antonio Scotto, Giovanni Antonio Turone.
Non tutti i ragazzi che hanno imparato a leggere e scrivere proseguono nello studio. Il tasso di scolarizzazione dei ragazzi tra i 10 e i 13 anni a Valenza può essere stimato intorno al 20%. La percentuale delle ragazze che frequentano la scuola dopo le elementari (già bassa) è invece vicina allo zero.
Una frazione significativa dei ragazzi appartenenti a famiglie di artigiani, negozianti e operai segue la scuola comunale pubblica, intendendo con quest’ultima definizione un centro di istruzione, di natura laica e aperto all’intera comunità.
È ideata e creata dalla volontà lungimirante di alcuni patrocinatori locali (Conte, Governatore, Podestà e Consiglio comunale) e assomiglia tanto a una scommessa per i tempi. Le lezioni sono gratuite e raggiungono uno strato di popolazione prima escluso. Gli allievi possono seguirle senza alcuna limitazione, il maestro, stipendiato, addestra una moltitudine di discepoli. I programmi prevedono i rudimenti del saper leggere, scrivere, comporre, ma anche l’insegnamento della morale. Non ci sono volumi di testo, ognuno si serve di ciò che dispone, l’invenzione della stampa a caratteri mobili ha portato però una graduale diffusione di libri.
Nel 1537 esercita in Valenza l’insegnante Andrea Cantone (notaio di Pecetto, possiede una vasta cultura), e nel 1546 il “professor di gramaticha” è il prete Evangelista de Bergondij di Garlasco. Mentre nel 1558, dopo il saccheggio per opera dei francesi, viene stipulata un’accurata convenzione tra il Comune e i minori di San Francesco “per far scuola di grammatica ed umanità” ai fanciulli valenzani, durante un percorso di tre anni, sotto la conduzione del P. maestro Luigi Fracchia. Per il brillante docente, in possesso di un’indubbia aura, anche l’obbligo di istruire “ai buoni costumi”.
Dopo una breve sospensione a causa degli eventi bellici locali, il Comune istituisce nuovamente una scuola pubblica gratuita dove, nel 1570, troviamo il “professore di grammatica” Giovanni Antonio Cavazzoni di Livorno e nel 1578 il “maestro di grammatica” Francesco Apostolo. Nel 1583 compare l’insegnante di Pecetto Bruto Salomone e nel 1584 Marco Antonio Cergnago, infine nel 1587 il prete Ferandio de Madiis (o Maggi). Quest’ultimo, con un compito più elevato dei precedenti, insegna ai più grandi non solo grammatica ma anche letteratura, mentre ai più piccoli trasmette l’alfabeto e i primi rudimenti scolastici.
I metodi, però, differiscono troppo da un maestro all’altro; spesso è lo stesso maestro ad improvvisare sistemi diversi da una lezione all’altra. Si fondano anche sul costante ricorso alle punizioni corporali: la disciplina è mantenuta a suon di bacchettate. Questi giovani temono l’insegnante, quindi sono tutti puntuali, educati e precisi come dei soldatini, e se pensiamo all’ordine, alla puntualità, ma soprattutto al rispetto che hanno certi junior d’oggi è un bel testacoda. Esiste un irrinunciabile obbligo per il maestro: quello del giuramento d’ortodossia nelle mani del prevosto della città.
Le stesse aule scolastiche sono, purtroppo, luoghi insalubri, dove gli alunni stipati in spazi angusti, sporchi, cupi e mal areati, gelidi e umidi d’inverno e afosi in estate, diventano spesso posti di infezioni ed epidemie.
In questi tempi, l’istituzione scolastica, dopo un primo livello elementare (alfabetizzazione, a partire dai 6-7 anni), finalizzato all’insegnamento della lettura, si differenzia in scuole di grammatica (ossia di latino) e scuole d’abaco (matematica-calcolo, professionali verso la mercatura). Il corso superiore istruisce lo studente affinché possa padroneggiare la grammatica, la retorica, la poetica, la storia e la filosofia morale: costituisce la premessa della saggezza e dell’eloquenza. Il giovane viene così erudito affinché possa dominare al meglio l’arte della retorica, quindi acquisire la capacità di costruire un discorso e sostenerlo anche in un contesto pubblico.
Per gli studi superiori i giovani valenzani devono soggiornare nei centri maggiori, principalmente in convitti laici e religiosi dove studiano insieme ai loro coetanei.
Il clero è da tempo il naturale rappresentante locale della scuola. Presso le istituzioni religiose locali (Duomo, San Bartolomeo, San Giacomo, San Francesco) ci sono le scuole di dottrina cristiana, che agiscono generalmente solo nei giorni festivi; il loro fine principale è l’insegnamento del catechismo ai ragazzi del popolo, ma unitamente a questo vi si insegna anche a leggere e scrivere in volgare. Gli ecclesiali danno un contributo essenziale alla riduzione dell’alfabetismo.
Anche le confraternite (S. Maria del Cappuccio, SS. Trinità, S.Bartolomeo, S.Bernardino, ecc.), che dominano la scena locale, offrono un’educazione scolastica al popolo, finalizzata all’insegnamento della lettura e a distinguere e pronunciare correttamente le lettere. Frequentano queste scuole, non di ripiego ma come favorevole integrazione culturale, anche molti adulti valenzani.
Le scuole private sono realizzate da famiglie associate o a titolo personale da insegnanti che, grazie alla loro fama, attraggono studenti chiamati a pagare le lezioni.
Nel 1566 alcune famiglie locali (Bellone, Bocca, Del Pero, Cattaneo, Zuffi, Della Croce, Augliero, Romussi, Tarone, Salmazza, Guazzo, Isola) affidano all’impavido educatore astigiano Giovanni Francesco Baiveri una nuova scuola privata triennale, con il limite di iscrizione di 18 alunni, e gli è concesso di tenerne in pensione fino a cinque nella casa-convitto postagli a disposizione.
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Da un documento del 1566, si è a conoscenza che ha esercitato in Valenza l’autorevole maestro toscano Domenico Tacci di Firenze il quale, accusato di dottrine contrarie alla religione, è caduto sotto il tribunale dell’Inquisizione, dissipando il suo talento e la sua fama.
I facoltosi valenzani Giovanni Basti, Angelo Bombello, Clemente Aribaldi e Giovanni Angelo Lana, nel 1582, si accordano col maestro di grammatica Marco Antonio Cergnago di Mortara per l’istruzione dei propri figli. L’accordo, che non avrà un buon esito, accorda all’insegnante la possibilità di ammettere alla scuola altri 50 alunni meno agiati e la facoltà di accogliere 6 di questi in pensione nella casa-convitto attribuitagli per detta scuola e per sua abitazione.
Tanti maestri, tra qualità e roba scadente, fanno parte di un circuito di scambi tra le famiglie più elitarie dove l’educazione (anche per le femmine), fatta sovente da culture arcaiche e aristocratiche, è individuale e affidata al maestro-precettore domestico.
Lascia perplessi alcuni colti valenzani, il nuovo modello di insegnante umanista rinascimentale il quale trae origine soprattutto dalle esperienze pedagogiche maturate presso le corti sforzesche. Dove questi “professionisti della scuola” hanno superato la rigida logica aristotelica e la dialettica scolastica a favore dell’argomentazione retorica e al recupero del latino classico, contro l’imbarbarimento linguistico medievale.
Per gli studi superiori i valenzani si trasferiscono a Pavia (facente parte dello stesso Ducato milanese) dove frequentano la celebre università. Un certo numero di loro illustra la scienza e la propria terra d’origine rivestendo cariche eminenti e occupando cattedre universitarie.
Nel 1531 nasce uno dei giuristi più celebri che questa città possa vantare: Vincenzo Annibaldi. Valenza deve a lui la riforma dei suoi statuti nel 1584. Sempre in questo secolo si collocano due professori valenzani di diritto nell’Università di Pavia: Nicolao Belloni e Giorgio Zuffi. Il primo sarà anche senatore in Milano nel 1535, il secondo pubblica nel 1566 in Roma le “Istituzioni di diritto criminale”.
Altre figure carismatiche valenzane dell’università pavese sono il giureconsulto Francesco Vaschi, rettore della Facoltà giuridica, ed i professori Ruggero Spinori e Paolo Stefano Annibaldi.