Gli ospedali di Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia cittadina
VALENZA – Con la denominazione di ospedale (domus ospitali) nel Medioevo s’indicava un posto adibito ad accogliere pellegrini. Solo nel Quattrocento diventano luoghi di cura per i malati, vale a dire ospedali nel senso che noi diamo oggi al termine. Erano istituzioni religiose che vivevano di lasciti e di elemosine, ma gli infermi poveri venivano solo soccorsi a domicilio.
Dopo il terrificante periodo delle pestilenze, è in parte provato che nel 1372 in Valenza esista un minuscolo ospedale denominato di San Lazzaro, ma, negli anni successivi, anche a causa delle tante guerre, il numero di questi luoghi di cura accresce. Per la miseria della realtà, non sono in grado di offrire tanto: normalmente un letto o, più frequentemente, un paglione collettivo con più posti in uno stanzone comune corredato di un piccolo l’altare. Non sempre è prevista l’offerta di cibo ai pellegrini, mentre per gli infermi e i poveri si è più generosi.
Nel 1412 il Comune, con il consenso del vescovo di Pavia, fonda l’Ospedale di San Bartolomeo unito alla chiesa e, nel 1415, nomina quale responsabile il secolare venerato maestro Enrioto de Magistris. Indi, all’inizio del ‘500, sorge la medesima Confraternita a cui vengono affidati chiesa e ospedale ma nel 1557, per la riedificazione delle fortificazioni, il tutto è smobilitato e il cappellano Giacomo Panizzari, animato da sdegno e delusione, esercita per un certo tempo l’esercizio ospedaliero, non troppo spirituale, nientemeno che nella sua casa.
Un interessante presidio ospedaliero è quello di Sant’Antonio (forse il più antico, risale al Trecento), connesso alla chiesa, situato all’estremità della sorte Bedogno, deve sorge il piccolo sobborgo. Anch’esso, nel 1557, viene demolito frettolosamente in malo modo dagli occupanti Francesi per il rifacimento delle fortificazioni. Grazie allo zelo dell’abate commendatario del tempo Marco Antonio Aribaldi (una figura di spicco, quasi un venerabile) è ricostruito in sorte Monasso con 2 letti a rotazione riservati ai pellegrini. Della chiesa di Sant’Antonio e dell’ospedale si perdono le tracce dopo le pestilenze del ‘600.
A fine Cinquecento, presso la Confraternita della SS.Trinità, se ne istituisce uno, sempre con due letti, un altro è annesso alla Confraternita di San Giacomo e un terzo è quello di Santa Croce, riservato ai soli pellegrini.
Il panorama sanitario è però parecchio desolante, queste piccole case di cura non corrispondono mai ai reali bisogni dei cittadini dell’epoca. E per questo, all’inizio del XVII secolo, l’amministrazione comunale, raggruppa finalmente tutti gli ospedali in uno solo che porta l’appellativo Corpus Domini detto anche del Santissimo Sacramento (otto letti per infermi uomini, sei per le donne e due per i pellegrini sani), amministrato dalla compagnia del SS. Sacramento.
L’origine è dovuta al testamento di Gerardo Tintore del 1579 nel quale lascia la sua casa (isolato dove ora è collocata la chiesa dell’Annunziata) alla fiorente Compagnia del SS.mo affinché venga aperto un ospedale per i pellegrini e per i poveri, con due letti. Seguono molte altre elargizioni, e infine, nel 1596, il Comune interviene per la costruzione del nuovo ospedale, visto che quelli già presenti non sono in grado di assistere tutti i poveri. Dopo tante giravolte e ambiguità, nel 1604 si avviano i lavori che durano 4 anni, seguiti nel 1614 dalla costruzione di una propria chiesa. L’ospedale però non funzionerà a lungo, soprattutto a causa delle continue guerre e assedi del luogo.
Nell’anno “horribilis” 1630 rincasa una terribile pestilenza: è una delle più famose e micidiali. Quella che, in poco tempo e in modo madornale, minaccia di cancellare l’intera popolazione valenzana portandola in meno di due anni da 4.500 a 2.000 abitanti. Sono eretti due lazzaretti: uno fuori le mura e l’altro al di là del Po, formato da alcune baracche e una chiesetta di legno. Sono i religiosi e i cappuccini locali a distinguersi e prodigarsi per alleviare le sofferenze.
La salute però non è ancora considerata un diritto del popolo e la sua protezione un dovere dei governanti. Almeno fino alla fine del XVIII secolo la situazione rimane confusa e poco incisiva sulla gente locale, solo piccoli ricoveri ospedalieri gestiti sempre dalle confraternite a mezzo di lasciti e benevolenze, nell’ambito dell’iniziativa privata; i vari ricoveri e ospedali appaiono sempre come opere di carità cristiana verso il volgo. Il popolo riuscirà fastidioso ma non si può fingere che non ci sia.
Con il testamento del 28-10-1776, la Marchesa Delfina del Carretto vedova Belloni lascia tutto il suo patrimonio (famiglia Belloni di Valenza) all’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro di Torino “con obbligo di erigere un ospedale per i poveri infermi nella città di Valenza, luogo dove ella per tanti anni era stata ammirata” e, con i beni dell’antico ospedale del SS. Sacramento fondato dal Tintore, cui si aggiungono piccoli lasciti di alcuni benevoli epigoni cittadini, il 1-2-1782 si apre nella casa, già appartenente al misuratore Baretti, il nuovo ospedale. Dove “si accettano gl’infermi purché cattolici con più di 12 anni e non affetti da malattie croniche”.
Dal 1799 al 1815, l’amministrazione dell’ospedale passa alla congregazione degli Ospedali Civili, ma, al termine del periodo francese, nel 1816, torna all’Ordine Mauriziano. Seguono altre donazioni (notevole l’eredità Salmazza); l’1-2-1829 l’ospedale trasloca in una nuova sede in via Pellizzari (angolo via Cavour), con 24 posti iniziali che passano a 28 nel 1840. Nel maggio del 1843 l’ospedale viene nientemeno che visitato dal Re.
TORNA AL BLOG DI PIER GIORGIO MAGGIORA
Nel nuovo brodo di cultura dell’Ottocento l’opportunità di alleviare le pene delle classi meno abbienti è ormai considerata un elevato dovere morale, eminentemente umanitario, per privati facoltosi e nobili delle famiglie tradizionali, spesso con la coda di paglia. Si palesano nella fondazione e nel sostegno d’opere d’assistenza sociale e anche d’ospitalità in senso stretto, accanto all’aiuto verso le tradizionali attività ospedaliere di tipo religioso.
Nel 1834 viene fondata l’insigne Opera Pia Pellizzari dal ricco sacerdote, che rifiuta le disuguaglianze, Don Massimo Cordara Pellizzari, con lo scopo di “soccorrere l’indigenza materiale dei valenzani”.
Con il lascito di Teresa Lana e con il suo, il canonico don Vincenzo Zuffi fonda la Casa di Riposo Ospedale dei poveri Incurabili detto l’Ospedalino. Aperto il 29-11-1832 con due letti, viene ben presto portato ad una decina. Il primo direttore dell’istituto (fino al 1898) è don Francesco Conterio e insigne benefattore iniziale è il capitano Filippo Seyderik. Esempio di dignità e onore, don Zuffi, un prete pratico di management quanto di sacre scritture, è creato barone da re Carlo Alberto.
Affievolendosi il carattere caritativo e assistenziale, gli ospedali assumono quello d’istituzioni pubbliche intese come mezzi di difesa sociale dall’infermità. La terribile epidemia di colera degli anni Trenta dell’Ottocento costringe i diversi infettati a scontare la contumacia in luoghi isolati e differenti, difficili da trovare.
Nel 1860, con nuove risorse, l’Ospedalino viene rinnovato e ampliato, acquisisce la capacità di 40 posti che all’inizio del ‘900 diventano un centinaio. Nel 1958, è ulteriormente ampliato di due bracci laterali, con la chiusura di porticati e corridoi; all’interno l’assistenza è ancora offerta da pie suore. Poi nel 1980 viene decisa l’estinzione dell’ente e il trasferimento del tutto al Comune. Infine, nel 2002 è nuovamente trasformato in istituzione (L’Uspidalì) sostenuta sempre dal Comune. La struttura ospita circa 150 persone, parte delle quali non autosufficienti; nel 2012 ne ha 129 e il bilancio è di circa 5 milioni di euro.
Di forte impronta sociale e popolare, in circonvallazione Ovest sorge nel 2006 la Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani non autosufficienti. Ha una capienza di 60 posti, è opera della fondazione Valenza Anziani cui va la medaglia d’oro, costituitasi allo scopo nel 1997; avrà un costo finale di circa 10 milioni d’euro.
Infine siamo all’attuale vituperato “nuovo” Mauriziano, trasferito dal dopoguerra. Già risparmiato da svariati invasori ed annientatori, sembrava averla scampata, ma ci ha pensato la nostra generazione a spogliarlo lentamente e inesorabilmente sino ai giorni nostri. Naturalmente con farse canoniche d’indignazione, soprattutto dalla politica.
Inaugurato nel 1954, è completato nel 1960 nel monoblocco di viale Santuario (all’inizio con un centinaio di posti, una decina di suore e circa 40 infermieri). Nel 1997 il nosocomio valenzano ha un’ottantina di posti letto (3,41% del provinciale e 0,44% del regionale), i degenti nell’anno sono 2.813 (3,72% del provinciale) e le giornate di degenza 21.888 (3,23% del provinciale). A guardare i numeri del personale è quasi lecito immaginare una casa di cura dove il malato ha una corte a sua disposizione come quei ristoranti più chic, invece i conti non quadrano, specie il risultato. Infatti, è una calata incessante nei servizi e negli assistiti, sicché nel periodo gennaio-ottobre 2009 ben 2.333 valenzani si ricoverano all’ospedale di Alessandria, 841 al Santo Spirito di Casale e solo 447 al Mauriziano di Valenza. Si parla insistentemente di chiusura.
Per questo, in questi ultimi due decenni dilaga la protesta dei valenzani: un vasto dissenso popolare unito al disagio di questa saga nibelungica; sulla sua sopravvivenza arrivano solo promesse, comitati, utopie, chiusure di reparti e di servizi. Per non parlare poi dei politici retroscenisti, maestri solidali nell’usare strumentalmente queste situazioni onde conseguirne beneplaciti e consensi.
Qualche giorno fa (ottobre 2020), pare si sia raggiunto un accordo tra Regione Piemonte, Fondazione Ordine Mauriziano e Azienda Sanitaria Locale per farlo risorgere. Alla buon’ora. Ci crediamo? Certamente ci va coraggio, in mezzo a tanto sconforto e a un microrganismo che sta mettendoci tutti al tappeto.