L’oreficeria a Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia cittadina
VALENZA – Questa città è ritenuta da molto tempo uno straordinario polo produttivo di gioielleria d’alto livello qualitativo, dove la realizzazione è stata fondata sull’originalità dell’ideazione, sulla raffinata tecnica della lavorazione e sull’assodata tradizione artigiana, in molti casi familiare. Rammentiamo che, sin dai tempi più remoti, esisteva a Valenza l’usanza di recarsi lungo le rive del fiume Po alla ricerca di pagliuzze d’oro e che la lavorazione di questo metallo era qui già praticata al tempo dei Romani.
In questo scritto, tracciamo un breve resoconto storico verace, senza impantanarci nei dettagli. Però, quando sia nata quest’operosità “artistica” locale, è storicamente (vale a dire con documenti certi) impossibile poterlo stabilire, e pure difficile da immaginare. Tuttavia, per mancanza di una veridica documentazione, azzarderemo una sommaria descrizione.
Gli assedi e i fatti d’arme, che coinvolsero questa città nel XV, XVI e XVII secolo, svilupparono notevolmente l’artigianato militare locale. Per quanto strano possa apparire, dietro l’orrore si nascondeva anche il business del tempo. Le truppe necessitavano di un apparato di sussistenza che conglobava generi di vettovagliamento e il rifacimento di quanto andava perduto o deteriorato, soprattutto le armi portatili di piccolo formato, spesso di pregevole fattura artistica, con preziose decorazioni (spade, coltelli, archibugi, elmi, ecc.). Valenza, con i suoi artefici, era perciò, anche nei frangenti bellici, una città di notevolissima importanza per fare fronte a queste esigenze. Era addirittura presente una zecca locale che forgiava monete. Ed è appunto l’esame di quest’elemento artigiano-militare che ci fa sostenere la teoria di una certa attitudine valenzana alla trattazione di manufatti metallici assai prima della nascita dell’oreficeria locale, ravvisata nel XIX secolo.
A maggior ragione, bisogna ricordare che già nel ‘500, e naturalmente nei secoli successivi, Alessandria e Casale vantavano una tradizione orafa-argentiera basata sull’attività di numerose botteghe. Sembra, infatti, che già in quei tempi Alessandria esportasse artigiani (orefici, argentari, ramari) a Valenza, dove vi erano diverse botteghe di gusto, appartenenti a famiglie nobili, nelle quali era possibile trovare stoffe, profumi e monili preziosi.
Si sa inoltre che nel Settecento e nei primi anni dell’Ottocento operavano a Valenza artigiani che si qualificavano come “orefici”. Probabilmente, gestivano botteghe di modesto valore dove si vendevano oggetti preziosi e orologi. Ma forse il fervore e lo slancio orafo nascono a Valenza non come esito di una certa tradizione, ma per la fortunata concomitanza d’alcuni elementi e finanche per l’ardimento di certuni iniziatori non valenzani. Nella vicina Alessandria già praticavano la professione Parasole, Guidetti, Pugliese, Perotti, Ceresa, e altri.
A Valenza l’oreficeria, come adesso è connotata, ha inizio nel 1817 quando dalla zona pavese giunge Francesco Caramora (nasce e si sposa a Voghera, muore a Pavia), il quale, con una timida esperienza e una grande passione, apre una bottega in Contrada Maestra. Egli nel 1825 (1824?) registra ad Alessandria il suo marchio per oggetti preziosi: un punzone con le proprie iniziali inframmezzate da una mezzaluna. Nei successivi due anni, Caramora è considerato il maestro orafo locale e la sua bottega conta la presenza di due apprendisti che agiscono con lui. Nel 1826 acquista una cascina ai Piani di Pecetto, che sarà poi individuata nelle mappe di fine ‘800 con il nome di “Cascina dell’orefice” (dove oggi è insediata la Manifattura Bulgari), ma l’anno dopo muore e tutta l’attrezzatura dell’azienda è rilevata, in asta pubblica, dal suo apprendista Pietro Canti il quale diventa così il secondo orafo attivo attestato in questa città, seguendo la produzione e la formazione ricevuta dal Caramora. Nel 1828 (1829?) Canti immatricola il suo marchio dove compaiono le proprie iniziali e una fiaccola. Altro orafo valenzano che deposita il punzone nel 1830 è Giacomo Amigliano.
Nell’azienda del Canti, unica effettiva produzione orafa in Valenza, operano quattro lavoranti e tra questi vi è l’apprendista Vincenzo Morosetti (Valenza, 1813-1887), il terzo precursore dell’oreficeria valenzana. Morosetti, abbandonata la sua città, pratica l’arte orafa da altre parti nondimeno che in America (?), indi ritorna a Valenza e avvia una produzione di un certo pregio, servendosi di tecniche produttive maggiormente raffinate. Già nel 1838 sembra abbia depositato all’Ufficio Marchi di Alessandria il suo punzone che porta le proprie iniziali e al centro il cuore di Gesù, mentre la sua azienda si stabilizza negli anni ’40. Nel 1845 chiama a collaborare nel nuovo laboratorio due provetti operai alessandrini: G. Francesco Zacchetti e Carlo G.F.G. Bigatti. Forse Valenza non offriva una provetta manodopera. Per loro, un dislocamento che richiede sicuramente una notevole forza d’animo ed un valido spirito d’avventura. Nei documenti anagrafici emerge che già nel 1864 il Morosetti non è più indicato come orefice ma come “proprietario” di beni.
Ben presto, forse per mettere alla prova le loro attitudini imprenditoriali, i due alessandrini lasciano il laboratorio di Morosetti e avviano proprie imprese. La ditta di Carlo Bigatti imposta la produzione su canoni più industriali con una nuova divisione interna del lavoro. Le qualifiche dei suoi dipendenti operai (24 nel 1861), rilevate da un censimento, sono ormai diversificate tra orefici, incisori, smaltatori, pulitrici. L’azienda produce spille, anelli, orecchini di qualità ancora relativamente sobria.
Nel 1850 i laboratori accreditati d’oreficeria presenti a Valenza risultano essere tre: Giuseppe Conti, Carlo Merlo e Vincenzo Morosetti. Ma in realtà, una statistica di qualche anno prima annotava già la presenza di due orologiai, due orefici e due venditori d’oggetti d’oro. Verosimilmente, si trattava d’attività modeste per dimensione e per qualità il cui prodotto smerciato, spesso bigiotteria, era destinato ad una clientela locale. Prima del 1849, hanno depositato il proprio punzone con l’intenzione di svolgere la professione Caramona, Canti, Conti, Morosetti, Reggio, Battaglieri, Porta.
Negli anni successivi al 1850 s’inseriscono altre piccole aziende, facendo crescere progressivamente la mano d’opera orafa del luogo: complessivamente, nel 1870, lavorano nel settore un centinaio d’operai. Anche se nessun altro punzone è depositato dal 1849 al 1872 (anno d’abolizione dell’obbligo).
Tra i giovani lavoratori che siedono ai banchi della ditta Morosetti per imparare il mestiere di “bigiotiero” (indicato su documento di lavoro) c’è anche un giovane, di spirito irrequieto ma dotato d’intrinseche doti imprenditoriali e artistiche: Vincenzo Melchiorre (Valenza, 1845-1925). Egli, come il Morosetti, prima di dare vita alla sua primordiale manifattura nel 1873 (Melchiorre & Compagni di Melchiorre, Ceriana, Dellavalle), compie un lungo tirocinio che lo porta prima a Torino e poi a Parigi, allora tempio europeo della moda e del lusso. Nel tempo, Melchiorre produrrà in Valenza una gioielleria di livello qualitativo più elevato (a titolo alto, con pietre preziose) rispetto alla media, capace di rispondere al gusto e alla moda di un pubblico abbiente, aggiornato sulle ultime tendenze, tracciando anche in modo caratterizzante il modello dell’oreficeria valenzana e della gioielleria italiana.
Il salto di qualità serve da stimolo per altre iniziative imprenditoriali che producono uno sviluppo del settore, in parte oscillante per alcuni decenni. Il suo esempio viene perciò ben presto seguito da altre nuove installazioni d’aziende, che danno inizio al processo di proliferazione e si connotano per un’elevata capacità di realizzazione, quali: Raselli Nicola (1875), Cunioli e Repossi (1880), Marchese e Gaudino (1882).
Nutrita dall’intraprendenza e dalle buone qualità imprenditoriali e commerciali dei valenzani, in pochi decenni l’attività orafa conosce una strabiliante espansione. La diversità valenzana diventa un aspetto positivo: spinge a fare e gratifica il merito, e l’intera città se ne giova. I sogni vanno oltre l’immaginabile, è un terremoto benefico e sarà la fortuna di questo luogo. Nel 1887 ci sono 19 imprese con 304 addetti, di cui 180 maschi e 124 femmine, tra loro una sessantina sono fanciulli; nel 1897 ci sono 17 imprese con 320 addetti, di cui 206 maschi e114 femmine, tra questi un’ottantina sono fanciulli.
Gli orafi valenzani mettono a profitto ogni innovazione, anzi, ci si tuffano dentro, per creare preziosi di qualità sempre più elevata e sempre più competitivi. Un alto quoziente d’inventiva e un’attenzione al particolare che non teme confronti: gioielli realizzati a mano e pezzi unici di grande valore. Di molto peso per la pratica, nel 1895 comincia l’erogazione del gas combustibile, segue l’impiego di motori elettrici.
Nel 1902 è fondata la Cooperativa di Produttori di Generi di Oreficeria, società anonima a capitale illimitato, di forte impronta sociale, i cui soci sono in gran parte operai specializzati. Nelle aziende orafe la manodopera maschile è preponderante su quella femminile. Le donne, rapide nel mestiere, si occupano di lavori non specializzati, come la pulitura d’oggetti d’oro che richiede una certa pazienza, ma non particolare abilità e preparazione. L’orario giornaliero è di circa 10 ore, i salari sono generalmente commisurati all’abilità dei singoli.
Le vendite, che all’inizio erano rivolte al mercato locale, si sono gradualmente aperte a livello nazionale, mentre le prime esportazioni risalgono al tardo Ottocento ed erano principalmente dirette verso il Sud dell’America. Le vendite ora avvengono grazie a viaggiatori, spesso è il proprietario stesso del laboratorio, un motore trainante, che visita la clientela.
Tuttavia, negli anni 1909-10, tutto traballa, il settore affronta una gigantesca crisi. Sono diversi i fallimenti per atteggiamenti disinvolti che coinvolgono anche alcuni istituti di credito (chiude i battenti anche la Banca Visconti, specializzata quale banco dell’oro). I motivi principali sono: le perdite, i fidi dati con leggerezza, gli interessi troppo alti, i prezzi elevati delle materie prime. E’ un’era politica di scontri feroci, la stampa infastidita definisce gli orafi valenzani “capitalisti senza capitali”. A completare il quadro, giova ricordare che la crisi orafa deriva pure dalla riduzione dei tassi d’interesse e dall’aumento dell’aggio sull’oro (la lira vale più del corrispettivo in metallo): una partita di giro, anzi di raggiro.
Le imprese orafe locali sono 11 nel 1901, 28 nel 1908, 43 nel 1911 con circa 500 lavoratori.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, le imprese orafe valenzane sono almeno 44, di cui 8 occupano più di 25 operai. La materia prima, oro, è acquistata soprattutto sul mercato milanese, le pietre preziose provengono, oltre che da Milano, da Amsterdam, Anversa, Parigi.
Finita la Guerra Libica, l’industria orafa accennava a riprendersi ma lo scoppio della Guerra Mondiale produce la paralisi quasi completa d’ogni forma d’attività e conseguenze poco prevedibili. Molti orafi sono chiamati alle armi, diversi di questi sono impiegati nel settore meccanico di precisione, sempre per produzione bellica.
Durante la Grande Guerra, l’attività orafa è quindi quasi sospesa (37 fabbriche su 41 chiuse), per dispersione della mano d’opera e per difetto di materia prima. Insostenibile l’approvvigionamento dei metalli preziosi (rarefatti e saliti di costo) e delle pietre ma, al termine del conflitto, il risveglio è veemente, quasi un recupero del tempo perduto. Come sempre nei periodi di crisi per molti, i prodotti per pochi vanno benissimo.
E’ super boom per i gioielli. Con l’oro dato a committenza in conto lavorazione, molti diventano orafi a domicilio per soddisfare la crescita del mercato; col tempo saranno nuovi artigiani produttori. Tanta manodopera femminile trova occupazione nella pulitura dei gioielli, sale l’entusiasmo e l’impegno.
Qui non esiste frattura tra imprenditori e operai, poiché sarà sempre minima la differenza fra l’artigiano orafo e il suo dipendente. Uniche certezze ineluttabili: vivono negli stessi luoghi, frequentano i medesimi locali e lavorano negli stessi spazi.
Nel 1923 a Valenza ci sono 64 aziende orafe con 376 operai, poi nel 1925 sono già 195 con 800 addetti. L’oreficeria è diventata a pieno titolo la protagonista economica di questa città. Tra il 1920 e il 1930, le ditte orafe aumentano repentinamente fino ad essere quasi 300 con circa 2.000 occupati alla fine degli anni trenta e più di 100 sono i commercianti-viaggiatori. All’epoca le aziende con 10 e più dipendenti sono queste: f.lli Bonafede, Canepa Giovanni, f.lli Carnevale, Gusmaro e Rota, Illario Carlo e f.lli, Merlani e Ferrarsi, Negri Leopoldo, Pagani e Cavallero, Soc. Orafa Valenzana, Soc.Coop.Orefici, Staurino Oreste, Vaccario e Deambrogi, F.lli Vecchio, Verderio e Visconti, Martinengo Carlo. Anche l’oreficeria risente del mutamento economico generale e non produce più per una nicchia di persone, ormai insegue la standardizzazione.
Ma le crisi non fanno sconti a nessuno, nel decennio 1931-40 (grande crollo del ’30 e sanzioni del ‘35) le imprese orafe valenzane vengono progressivamente ridimensionate e i loro perplessi operai non hanno più il lavoro garantito tutto l’anno. Caricate d’angosce, diverse sono costrette a chiudere e anche alcuni commercianti falliscono.
Inopinatamente, l’inizio della nuova guerra coincide con un’espansione dell’attività locale, nonostante gli intralci derivati dal monopolio statale del commercio dell’oro. Sono vietati gli acquisti, la vendita e in genere qualsiasi atto d’alienazione del platino, dell’oro, dell’argento, delle perle e delle pietre preziose. Alla luce di questo, alcune aziende chiudono i battenti, altre si adeguano a lavorare metalli vili e a montare pietre sintetiche, anche se la richiesta d’oggetti preziosi cresce. Quindi, pure se il prezzo dell’oro continua ad aumentare, la domanda non segna rilevanti cadute, anzi, in alcuni momenti del periodo bellico, acquista vivacità.
Pertanto, nei primi anni del dopoguerra, l’inflazione, che continua a influenzare la domanda d’oggetti preziosi, e i timori provocati da un possibile cambio della moneta, che fanno crescere sempre più la richiesta di beni di valore, fanno esplodere la produzione orafa. Le imprese in possesso di marchio raddoppiano tra il 1946 e il 1951 (quando le aziende orafe sono circa 300 con quasi 2.000 occupati). Alla fine degli anni ’40, ogni casa della città possiede almeno un laboratorio di oreficeria, per la maggior parte a conduzione familiare, con mediamente non più di 4 o 5 dipendenti. La modesta attrezzatura necessaria, e lo scarso bisogno di un capitale fisso, favoriscono la nascita e lo sviluppo di strutture operative di dimensioni modeste (quindi sostanzialmente fragili) che compongono la forza della città nel presente ma che costituiranno un punto di debolezza in futuro.
L’economia locale corre al modo di un treno, come se il cielo fosse il solo limite: lavoro e ancora lavoro. A Valenza sono le aziende orafe con i propri lavoratori a rompere ogni limite alle previsioni economiche, aiutate dall’apertura dei mercati internazionali. Queste passano da 335 nel 1951 a 575 nel 1961 con un saldo positivo di 240, pari al 71,64%, e gli addetti da 1.972 a ben 4.068 unità, con un saldo positivo di 2.096 unità, pari al 106,3%.
E’ l’Associazione Orafa Valenzana (nata il 12 giugno 1945) una delle realtà più attive, e più autoelogiate, per iniziative di promozione le quali crescono costantemente in complessità. Presidente per quasi un ventennio (dal 1957 al 1974) è il carismatico Luigi Illario, il vero “ideologo” dell’oreficeria valenzana, senza troppe scosse, sempre in sella, forte di una legittimazione che gli viene dall’aver sostenuto in ogni modo l’istituzione (presidenti AOV: 1945 Fontani, 1957 L.Illario, 1975 Ferraris, 1979 Staurino, 1983 Verità, 1988 Verdi, 1994 Terzano, 2000 V.Illario, 2006 Guarona, 2012 Barberis).
Questa piccola cittadina ha la più alta densità orafa del Paese, il più elevato numero d’imprese artigiane orafe e gioielliere e riunisce la salda tradizione artistica artigianale ad un’ampia capacità di novità tecnica, stilistica e di materiali.
Invece, negli anni susseguenti, Valenza comincia a sentirsi circondata da altre realtà che sono in grado di farle concorrenza, non solo sul piano dei costi, ma anche su quello della qualità. Come tutto il made in Italy, l’oreficeria è minacciata da paesi emergenti che producono le identiche cose a minor costo e si comincia a soffrire. E molti produttori di gioielli valenzani, spesso troppo avidi e opportunisti, si accingono a non capirci più niente.
Negli anni Settanta e Ottanta gli orafi valenzani perdono quella sicurezza che era stata una delle prerogative principali degli anni passati, quell’arditezza sostenuta dalla propria bravura produttiva e da una crescente domanda di mercato, più che da reali capacità imprenditoriali e organizzative. Distorti da filastrocche amorevoli e da troppi trombettieri, arroccati nella presunzione che la produzione degli “altri” è scadente, copiata, e che loro sono i più bravi, molti orafi valenzani, in questo periodo, con una visione piuttosto edulcorata, restano ancora convinti che i loro consumatori continueranno ad acquistare. Nel 1971 le unità d’oreficeria a Valenza sono 901, gli addetti 4.832, e nel 1982 le aziende di produzione superano il migliaio e sono più di 300 quelle che commerciano preziosi. Non sono conteggiati i laboratori non registrati e i lavoratori in nero, che sono da sempre un gran numero.
Nonostante una strisciante decadenza, negli anni ‘90 del XX secolo, l’elevato livello del prodotto, una fiera di fama internazionale, scuole professionali e una tradizione orafa radicata nel territorio, fanno di Valenza una meta privilegiata di turisti del lusso e di curiosi e interessati acquirenti.
Invece, alla fine del secolo, la soluzione “funesta” è la graduale chiusura di molte aziende con le sospensioni e i licenziamenti delle maestranze. La fiscalità ossessiva, le mille regole e leggine asfissianti di non felice interpretazione, i tanti lacci e laccioli, fanno perdere spesso la voglia e l’orgoglio di combattere. L’attività e lo sviluppo orafo si mantengono in questo ventennio (1981-2000) ancora su livelli soddisfacenti (nel 1986 l’AOV ha oltre 700 associati); solo alla fine del millennio si assiste sgomenti alla disgregazione di buona parte del simbolo industriale di questa città.
Naturalmente, nell’ultimo ventennio (2001-2020) i numeri sono tutt’altro che incoraggianti, la manodopera orafa e le aziende si riducono, in misura paurosa, del 50%. Nel 2015, solo 1/5 dei lavoratori è occupato in un laboratorio orafo. Non a caso, sono le aziende che producono oggetti di media fascia (molte fedeli sino all’ultimo) a subire maggiormente la crisi del settore, le loro capacità di sopravvivenza sono seriamente compromesse. Se la cavano ancora quelli che hanno saputo articolare in modo organico il ciclo produttivo, diversificandolo all’interno e serbando la capacità di cercare clienti e mercati alternativi.
In un clima confuso da morituri, nel 2007, iniziano i lavori del nuovo centro espositivo (Palafiere). E’ la vetrina e il prototipo salvifico della lacrimevole economia valenzana, peccato che sia diventata solo una fiction. Il nuovo Centro fieristico Expo Piemonte, volutamente esagerato e assurdo (dopo poco molto “metafisico”) ma pieno di fascino (è il più grosso investimento di denaro pubblico a Valenza negli ultimi decenni), sembra un feto adulto, subito decomposto, senza essere mai nato. Anche il piccolo mondo antico e altero dell’AOV ha ormai le vele sgonfie, prima dell’eutanasia ha scaldato il cuore di pochi nostalgici, più per disperazione che per convinzione.
Dopo aver ricevuto dall’alto solamente abbondanti perle di “saggezza”, dentro un contesto economico non proprio favorevole e in assenza di qualche sforzo corale coordinato, fortunatamente, a favorire l’occupazione locale, nel 2017 s’insedia in questa città il più importante stabilimento di manifattura gioielliera in Europa: la Manifattura Bulgari. Inizio nel gennaio 2017 con circa 400 lavoratori, salito poi a 700, e presto pare raddoppi toccando il primato mondiale. L’acquisizione recentissima del Palafiere, in abbandono dal 2014, da parte del Gruppo Damiani si spera sia la riscossa dell’oreficeria valenzana dopo i troppi anni di crisi.
In questo nuovo scenario produttivo il salto di qualità pare inconfutabile e funzionale. Con la Maison Bulgari, la Maison Damiani, altri eventuali brand internazionali (forse nel 2023 Cartier) e i suoi contoterzisti locali, Valenza procede forse sulla strada della ripartenza, dopo lo shock degli ultimi anni, immersi nel frenetico mondo fluido della globalizzazione e dell’e-commerce, abbandonando l’attuale tragico e anomalo momento pandemico.