Valenza tra XII e XIII secolo
Nuovo contributo sulla storia della città da Pier Giorgio Maggiora
VALENZA – Nel XII secolo, soppiantando il moribondo sistema feudale, si afferma il Comune come forma di libera amministrazione cittadina. Corrisponde ad un’autentica rivoluzione di costumi e ad una fase di risveglio economico, in uno sconnesso intreccio di poteri, diritti e atteggiamenti disinvolti che, tuttavia, vedono ancora il predominio della nobiltà. A Valenza il Comune (di tipo rurale), posto nel Comitato di Lomello, sorge dall’iniziativa solidale d’alcuni agricoltori emancipatisi dai vincoli del servaggio e di certe nobili famiglie, tutte scaturenti dai Visconti di Monferrato, discendenti da Oberto e Anselmo d’Astiliano (antico nucleo di Valenza).
Agli albori dell’epoca comunale, Valenza è un’utile roccaforte sulla destra del Po, una cittadella ben difesa dalle inondazioni del fiume, e in posizione panoramica tale da consentire di avvistare un eventuale nemico con discreto anticipo. Posto in un’estrema zona strategica, il luogo è sempre più attraversato da mercanti e pellegrini, ma anche da pericolose marmaglie d’ogni genere e da selvatici straccioni. La città si organizzerà nel Duecento nella nuova forma comunale, sfruttando sapientemente la fortunata posizione che la pone al centro dei traffici tra Genova e la Pianura Padana.
La struttura urbanistica del centro di Valenza conserva ancora oggi i segni della matrice dell’epoca, soprattutto nell’impianto planimetrico complessivo con la gran croce formata dalla contrada Maestra, da Porta Po (nord) a Porta Astiliano (sud), da Porta Monasso-Casale (ovest) a Porta Bedogno-Bassignana (Est).
All’epoca, fuori le mura a sud, ci sono i frati Gerosolimitani con la loro chiesa di San Giovanni ed un piccolo convento, una bandiera templare per la città e da quelle parti è più opportuno non fare gli sbruffoni. Funziona da ospizio per i più emarginati, i nomadi e per i lebbrosi. In questi tempi la presenza templare è decisamente importante nel nostro territorio (Precettoria di Casale, Santa Maria del Tempio, Mansione di Santa Margherita di Bergoglio in Alessandria, Castelnuovo Scrivia) e anche nella porzione valenzana la presenza dell’Ordine è animosa. Favoriscono gli scambi, i commerci, gli investimenti con varie sinergie. Sono presenti anche i monaci Umiliati che favoriscano la lavorazione della lana, probabilmente gestiscono la chiesa di San Giorgio in sorte Astiliano.
Valenza fa parte della Diocesi di Pavia (vi resterà ininterrottamente fino all’epoca napoleonica). Forse, nel 1239 (per alcuni un secolo dopo), vengono edificati il convento e la chiesa dei Minori Conventuali in onore di San Francesco.
Le case dei valenzani meno abbienti sono poco più che un angusto ricovero dove si dorme e si conservano i propri scarsi averi, caratterizzate dall’assenza o quasi di spazi differenziati. Nei letti dormono più persone, non esistono lenzuola e le coperte sono poche; si va a dormire completamente vestiti, comprese le scarpe, in inverno e seminudi in estate. I pasti della gente comune sono formati solo da un po’ di zuppa, pane, lardo e qualche verdura raccolta nell’orto. Le classi più umili e i contadini consumano un pane di farina mescolata con orzo, segala, saggina e fave.
Il ceto più fortunato, baciato dalla grazia, mangia spesso la carne, soprattutto di pecora, di maiale, d’agnello, di coniglio, d’anatra, di pollo, e questo spiega la larga diffusione della gotta. Usuale ai valenzani è il consumo di pesce, per la vicinanza del fiume. La superstizione è diffusa, un po’ per scherzo e molto più sul serio. La gente si sposa molto precocemente. I gabinetti non esistono, poco osservata è l’igiene personale, l’uso (e spesso la possibilità) di lavarsi è ristretto a pochi facoltosi. Le immondizie sono buttate dalla finestra.
La campana della chiesa funziona da orologio comune, batte le ore e con rintocchi specifici comunica i pericoli, annuncia le feste, le riunioni pubbliche, i funerali. I comunicati ufficiali sono letti da un araldo per le vie della città.
Le ostilità sono certezze ineluttabili. Dopo il breve soggiorno pacifico di Enrico V (il quarto e ultimo re d’Italia e imperatore del Sacro Romano Impero) nella nostra zona nel 1116, Lotario III (imperatore del Sacro Romano Impero) sopraggiunge con l’esercito nel 1136 con lo scopo di attaccare Gamondio (trasformatosi in Comune nel 1106, alleato con i signori di Sezzadio, ha piena egemonia nella zona) e occupare con la forza anche Valenza, costringendo tutti a subire senza discutere la volontà imperiale. Una tempesta che diventa precipuamente un rituale. All’azione di Lotario si lega quella di Federico I Barbarossa che, tra discordia e tragedia, capiterà vent’anni dopo.
Il Barbarossa (detto anche enobarbo, vale a dire barba di bronzo) è il legittimo Re d’Italia e mezzo Paese è d’accordo con lui quando si offre di mettere fine all’anarchia che prevale nei Comuni italiani. Per restaurare la sua autorità ed essere incoronato (a Monza nel 1155), egli scende nella nostra zona al fine di punire il comportamento ribelle e insensato di Asti e di Tortona. Nel 1154 la nostra città viene occupata dalle sue truppe in conflitto inequivocabile con certi Comuni e nell’anno dopo anche i Pavesi (complici dello stesso Federico I) dilagano in tutta la Lomellina, contro i Conti di Lomello (schierati con Milano), giungendo sino a Valenza.
La nostra zona passa in questo modo dal Comitato di Lomello a Guglielmo V degli Aleramici (fedele imperiale, ma non per sempre) che nel 1162 crea signore di Lazzarone (attuale Villabella) Ferdinando Sannazzaro e l’imperatore Federico I Barbarossa il 4 dicembre 1163 conferma i privilegi su Lazzarone ai quattro cavalieri (Milites) Rainiero, Burgonzo, Assalito e Guidone (Widonis) de Sancto Nazario: almeno due sono figli di Ferdinando.
Nel 1164 Federico I sottomette definitivamente a Pavia il Comitato di Lomello e, per rendersi benevoli i patrizi del Monferrato e lo stesso marchese Guglielmo V (il più deciso oppositore dei Comuni, sempre per ora), nomina signori di Valenza Anselmo, Raineiro e Oberto Visconti (di Monferrato). La casata Visconti avrà più avanti anche il Feudo di Lazzarone. Ma i reggenti di Valenza sono impreparati, impauriti e manipolati, non sono in grado di affrontare le intricate circostanze belliche del momento.
La Cittanova (Alessandria), che sta venendo alla luce in sordina intorno a Rovereto e Bergoglio, diviene ben presto un ulteriore punto focale di raccolta delle popolazioni angosciate dalla nuova precaria situazione. L’aggressivo Federico I di Svevia (Barbarossa) con i suoi imperiali, il 29 Ottobre 1174, si presenta alle porte di Alessandria chiedendo la resa incondizionata. Al rifiuto, le soldatesche imperiali, aiutate da milizie monferrine e pavesi, attaccano ma vengono respinte da una vigorosa reazione degli alessandrini. Inizia così un lungo assedio, ma, siccome il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, le cose non vanno secondo i piani dell’Imperatore, il quale, dopo vari tentativi andati a vuoto, si rassegna ad abbandonare l’assedio e a sgattaiolare. E’ il 12 aprile 1175. L’anno dopo (29 maggio 1176) le città della Lega Lombarda lo sconfiggeranno a Legnano.
Qualche anno prima, la nuova città Alessandria era diventata parte integrante dello schieramento papale dei Comuni che comprendeva finanche Valenza (l’insegna era una croce rossa su campo bianco argenteo). Tuttavia, negli anni successivi, la nostra città partecipa, in modo troppo spavaldo e un po’ folcloristico, alle lotte comunali. Infatti, con una chiarezza madornale e coerente come i cavoli a merenda, fa dietrofront e cambia alcune volte schieramento (svolta e contro-svolta); banderuola per ragioni d’opportunismo e, più di tutto, a causa dei contrasti interni tra le due fazioni cittadine (i Sannazzaro sono fieri alleati dell’Impero). Sottomessa e devota, in cerca di autoconservazione, la nostra città, ripiomba ben presto sotto la sudditanza dell’Imperatore e per lui all’intransigente Marchese del Monferrato. Anche Alessandria viene abbandonata da tutti i suoi alleati e nel 1183 diviene città imperiale. La città cambia il suo nome in Cesarea e lo riprenderà nel 1198.
Tra i più determinati oppositori valenzani al marchese Guglielmo V il Vecchio e all’Imperatore vi è l’ingombrante console Rufinum, messo al bando dall’Impero nel 1167. Egli, un eroe? Un uomo vero, tenace e coraggioso, con attorno un’aura d’audacia e martirio per essersi rivoltato al sovrano assoluto, non poteva concepire niente di più efficace che sostenere gli alessandrini per guastare l’umore degli imperiali.
In mezzo ai pochi documenti dell’epoca esistenti, riferiti ad atti “rogati” in Valenza e in altri luoghi, compaiono nomi di valenzani detentori di un certo potere, quali: anno 1158, Anselmus de Valenza (Visconti) – 1167, Rufinum de Valentia (console illustre) – 1195, Ferrarius de Valentia – 1198, Raynerius de Valencia (Visconti) e Ansaldus de Valenca – 1199, Ogerius Capitaneus de Valenca et Alexius de Valenca, Ferrarius capitaneus Valentie – 1202, Oglerius Capitaneus de Valentia – 1202, Capitanei de Valentia – 1204, consoli del Comune di Valenza – 1209, illorum de valentia – 1223, Alexius de valencia (giudice) – 1224, Arpini de Valentia – 1231, Alexius de Valentia (giudice).
La sedizione che è avvenuta ad Alessandria, e che ha coinvolto anche Valenza in questi anni (costretta a giocare un ruolo a rimorchio, un amore però mai sbocciato), ha quali principali attori i Milites (valvassori che possiedono terre e diritti), la classe feudale di secondo grado. Essi compaiono come Consoli anche in Valenza, sono quelli che hanno nelle loro mani il potere, in compagnia d’alcune eminenze grigie dell’area.
Manfredo di Valenza, Ruffino di Bassignana, i Ruffino e Raineri di Mirabello, gli Oberto da Foro, gli Aleramo da Marengo, Pugno di Gamondio, i Guasco, Peregrino di Piovera, gli Amedei di Fubine, Manfredi di Isola, rappresentano quella classe di Milites (nobili del Contado) che formano in questi anni il nerbo della società nel nostro territorio. Hanno avuto benefici dai marchesi e dai vescovi; sono la classe intermedia tra i grandi e gli infimi.
In questi ultimi decenni (dalla prima comparsa dell’Imperatore davanti a Valenza e Tortona) le plebi rurali valenzane hanno sofferto abbastanza. Le crudeltà teutoniche e pavesi sono state pesanti e pressoché costanti. Le corvées imposte, gli abbattimenti e gli scavi per le mura nuove, le distruzioni di villaggi e di messi, sono ricordate con terrore.
Nel 1187, alcuni nostri conterranei travestiti da crociati e guidati dal marchese di Monferrato Guglielmo V (detto il Vecchio), per assicurarsi un fascio di luce sulla ribalta o ispirati dallo Spirito Santo, probabilmente all’oscuro di cosa significa mettere piede in quel girone infernale, combattono lo scontro decisivo in Terrasanta (battaglia di Hattin tra il Saladino e i Cristiani, 4-7-1187) che decreterà l’inizio della fine del Regno crociato e la riconquista islamica di buona parte della Palestina (nome dato dai Romani alla Giudea).
La peste investe questo territorio nel 1189, un’ossessione che si ripete costantemente, con centinaia di morti: si ripresenterà nel 1222.
La testimonianza e la certezza di solida realtà amministrativa valenzana è l’accordo del 14 marzo 1199, quando in un campo in prossimità di Valenza (“in prato uno prote Valentiniano”, località Motta di Grana?) il marchese mecenate Bonifacio I di Monferrato degli Aleramici, re di Tessalonica dal 1204 al 1207, figlio terzogenito del marchese Guglielmo V, e suo figlio Guglielmo VI giurano, ai consoli di Milano e di Piacenza (alla presenza di alcuni ambasciatori) di rimettersi ai patti di quanto stabilito da Lantelmo di Monza “in riguardo a quanto si debba stabilire nella discordia con Alessandria, Asti, Vercelli”. Nella circostanza sono presenti i valenzani: Ogerius, capitaneus de Valença, Alexius de Valentia (importante arbitro-giudice dell’epoca), Ansalsus de Valentia, Ferrarius de Valentia (capitanius agli ordini del Marchese di Monferrato). Nel 1204 un analogo giuramento è rogato “iuxta fossatum loci de Vallenza”. Sono accordi sesquipedali che ben presto naufragano regolarmente, poiché la confusione è troppo grande perché porti a collaborazioni ordinate nell’interesse di tutti.
Un altro documento del 1202 (25 agosto) ci conferma che i monferrini vengono in possesso del territorio di Astiliano (Astigliano) e di Valenza: lo conserveranno fino al 1290, con alterne vicende. Come tanti comuni lombardi, anche la città di Valenza continua però a dichiararsi indipendente, in un certo modo libera dalla reale dominazione dei marchesi di Monferrato.
Lo stesso anno (1202) si assiste per la prima volta alla presenza in atti ufficiali di Consoli del Comune di Valenza (Valentie-Vallenza-Valenca). Il governo cittadino è pertanto affidato ai Consoli o Rettori, nominati dai notabili, ma sempre asserviti ad una Grande Madre.
Guglielmo VI di Monferrato (un fuoriclasse al contrario), figlio di Bonifacio I, cede Valenza in “ipoteca” a Pavia per un certo periodo tra il 1208 e il 1224. I pavesi la terranno sino ad esaurimento del debito, restituendola infine al Marchese. Il tutto in cambio di soldi (pare con un pegno di 4.000 libre in moneta, quasi un autentico bidone), con una forma equivoca e soprattutto priva dell’assenso dei diretti interessati e, ancora più sorprendente, per finanziare una spedizione malriuscita in Oriente com’ennesima crociata. L’indignazione è generale e profonda, nel pegno rientrano anche Pomaro e San Salvatore. Guglielmo VI, nel 1224, si reca sino a Catania alla corte dell’imperatore Federico II per concedere in pegno nientemeno che il marchesato, sempre in cambio di denaro per la riconquista del Regno di Tessalonica (uno stato crociato dalla vita breve). Ma oltre alle necessità finanziarie sono indifferibili esigenze politiche e militari a spingere i marchesi di Monferrato a cedere Valenza e zone limitrofe al Comune di Pavia, che si occuperà della difesa della nostra città contro Tommaso I conte di Savoia nel 1215, quando, con le milizie vercellesi e alessandrine, andrà spudoratamente a spianare Casale.
Il Marchese Bonifacio II di Monferrato detto il Gigante (un voltagabbana patologico che governa dal 1225 al 1253) nutre un odio viscerale verso Alessandria. Fino alla fine del suo marchesato egli continuerà a combattere caparbiamente anche contro i suoi vicini, in un misto di rancori, ricatti, smanie di grandezza.
Si combatte, in momenti diversi, contro lo scomunicato Manfredo o Manfredi II Lancia (vicario imperiale, podestà di Alessandria, ecc.) dal 1238 al 1257 e poi contro le truppe del feroce bigotto re di Sicilia Carlo d’Angiò nel periodo 1258-1265.
A cagione di questi crocicchi d’alleanze e contese, Valenza (una specie di vittima sacrificale) è frequentemente molestata anche dagli alessandrini che la guardano ora con malcelato fastidio, essi parteggiano prima per l’imperatore Ottone IV intanto che Pavia è per Federico II, mentre nel prosieguo le alleanze variano su tutti i fronti. Poca la nobiltà degli intenti, prevalgono solo i calcoli economici e strategici. Una sorte permanente di “capitis deminutio”, spesso con parole sagge ma scellerate nei fatti.
Nei diplomi di Federico II del 1219 viene delineato il territorio dell’antica Contea Lomellina (Lumellina), divenuta la carta assorbente di un vasto territorio che comprende anche alcuni paesi al di là del Po fino a Valenza e Marengo. Alcune concessioni espresse riguardano le modalità dell’autogoverno cittadino, la potestà, la capacità impositiva, e altro. Per disposizione di un successivo diploma del 1232, sempre concesso da Federico II, vengono finalmente e ufficialmente creati i consoli e i rettori nel distretto di Pavia di cui fa parte il Comune di Valenza (che già da anni possiede suoi consoli): si tratta di una svolta storica. L’ufficio consolare risulterà appannaggio consueto di un numero ristretto di famiglie, ma ben presto il “Popolo” prenderà il potere e istituirà due nuovi organi di governo: gli Anziani e il Consiglio dei Sapienti. Mentre, accanto al Podestà, farà la sua comparsa il Capitano del Popolo.
Prima in Germania, e poi anche in Italia, sorgono due potenti fazioni, sempre in lotta tra loro: i guelfi e i ghibellini. I primi fedeli al Papa e i ghibellini in favore dell’Imperatore. Valenza pare devota alla Chiesa e al suo capo, ma non mancano i contrari.
Da ultimo, per non farci mancare niente, facciamo un parallelo, forse aberrante, con le attuali definizioni politiche: i ghibellini sono dei conservatori e dei tradizionalisti, i guelfi sono gli emergenti, innovatori e progressisti. Insomma, anche il paradosso può essere una forma di resoconto storico.