Cronaca valenzana del ‘300, il tradimento
Ancora un approfondimento sulla storia della città
VALENZA – Dal 1348 al 1380 nella Valle Padana si svolge un immenso duello fra due grandi signorie: gli Scaligeri di Verona e i Visconti di Milano. Attorno a loro giostrano, ora alleati, ora nemici, il Duca di Savoia ed il Marchese di Monferrato signore di Valenza. È un caos d’alleanze innaturali e di tradimenti, di paci e di guerre, d’improvvisi trionfi e di crolli precipitosi, scelte a metà strada tra la follia e il comportamento ad alto tasso etilico. Da non credere! Dopo una nuova pace tra il Monferrato ed i Visconti, nel luglio 1369 si riaccenderanno le ostilità nella nostra zona. Eh si, al cuor armigero non si comanda.
Valenza è in questi tempi una città vitale, un centro di notevole importanza strategica, conta più di 2.000 abitanti, estende il suo dominio su Monte e Lazzarone (di Milano Visconti di Lazzarone). Il borgo di Monte, in proprietà dell’abate Sant’Ambrogio di Milano sin da fine 800, nel 1200 è passato al Marchese del Monferrato che lo ha dato in Feudo a certi Cattanei. Poi, nel 1347, ritorna ai Paleologi del Monferrato (e a Valenza) e infine ai duchi di Milano. Da allora Valenza e Monte saranno definitivamente uniti e il sobborgo sarà amministrato dal Municipio valenzano.
Con un’arte del governo non troppo rigorosa e con certi eccessi di follia distruttiva, il Comune possiede un’assemblea comunale, il giudice, il podestà ed un palazzo comunale (attuale centro comunale di cultura) sito nella piazza principale, la quale è il centro commerciale, politico e religioso. Ma, più che sedi d’etica pubblica, sono anche luoghi per diverse oscure macchinazioni dove le norme sono applicate a discrezione (venerate quando conviene e profanate quando impicciano o impediscono la custodia di privilegi). Per lungo tempo la regola base per certe attività sarà di negare e mentire. Pare un ritratto della moderna realtà, per usare un eufemismo non troppo azzardato.
Valenza è sede di Vicariato generale del vescovo di Pavia per i territori posti a sud del Po, e gode quindi di una posizione di gran rilievo anche dal punto di vista religioso.
Commercialmente è però ancora una cittadina agreste con una vasta distesa di vigneti fuori le mura, che è stentatamente alla ricerca di un posto da protagonista economico. Resta all’incirca quella di sempre, con una vita sociale e costumi tipicamente contadini e con alcune categorie (in misura minore) artigianali e commerciali che raffigurano in embrione la piccola borghesia futura, ma in quantità talmente ridotta che rende l’aspetto agricolo ancora più evidente. Sul Po c’è un porto natante (portus) con uno zatterone, atto a traghettare persone e merci, e con altre imbarcazioni di servizio. Il pedaggio che viene riscosso dai portolani a carico dei forestieri è una delle principali entrate economiche della comunità valenzana. È stata ritrovata una moneta (nel ‘400 vicino Como) che corrobora la tesi dell’esistenza di una zecca nella nostra città in questi anni: porta la scritta “Santi Antonius et Georgius Astiliani, tutores Comunitatis et loci Valentiae”.
Nel 1347, dopo il ritorno dei Visconti i quali l’avevano occupata nel 1342 durante la lotta contro i Paleologi, Valenza si sottomette nuovamente alla confinante e turbolenta signoria del Marchese di Monferrato (Giovanni II Paleologo), con un originale accordo che esclude per i valenzani ogni tipo di tassazione.
Il giuramento di fedeltà (pacta sunt servanda) avviene nella chiesetta di San Giorgio (in Monasso?), situata appena fuori Valenza. Sensale del “matrimonio” è il giureconsulto (podestà-sindaco) Francesco de’ Denti. Ambasciatori deputati all’evento (al di sopra delle loro possibilità) ed esponenti locali di peso in questi anni, autoritari e poco tolleranti, spesso partecipi agli intrighi e faide intestine, sono: M. Andrea Aribaldo (Annibaldi), M. Giacomo Stanco (Stanchi), Francesco Dinna (Dina), Giacomo Carena, Pietro di Vassallo, Michelino de’ Belloni (Bolla), Enrico di Monte, Lancia Bombelli/o.
Ma, al di là di questo, da non dimenticare lo scenario da incubo che si sta apparecchiando: tra poco sopraggiungerà una terribile catastrofe, la peste nera (batterio Yersinia pestis, cambierà il corso della storia); si diffonderà in tutta l’Italia dal 1348 (in tutta l’Europa dal 1347 al 1351) e anche la nostra città ne sarà pienamente coinvolta. Per tanti una maledizione divina.
L’editto valenzano del 19-6-1347 (un abbraccio pieno di ipocrisia e di falsità, a rischio elevato), che ha posto la città sotto la sudditanza dei marchesi del Monferrato, è interpretato dai Visconti milanesi come un palese atto d’ostilità e costoro cercheranno in tutti i modi di riaverla; tuttavia, la roccaforte valenzana è giudicata un ostacolo troppo consistente da superare con un assedio. Per questo, nel 1358, i milanesi decidono di ricorrere all’inganno, dando origine ad una sconcertante vicenda. Difficile da decrittare fedelmente per i contorni ambigui dei protagonisti; un clima d’odio, di violente contrapposizioni, che se non fosse di per sé drammatico farebbe oggi poco più che sorridere.
Secondo il racconto di Bonaventura di San Giorgio, Lancia Bombelli/o, suo figlio Franceschino e Pieruccio Aribaldo/i, cittadini originari di Valenza, vengono indotti, con la lusinga di una possente quantità di denaro (6.000 fiorini d’oro, ma forse si farebbero sponsorizzare pure dal conte Dracula), dagli alessandrini intrallazzatori melliflui guelfi Giovanni e fra Simone della famiglia Del Pozzo e da Matteo (Roberto) de Franzola capitano di Alessandria (creato da Galeazzo II Visconti), a vendere la loro città ai Visconti. Per fomentare meglio la congiura, i due fratelli alessandrini organizzano un ricevimento in una loro proprietà (cascina) situata nei pressi di Montecastello e in tale circostanza tentano di convincere gli invitati a prestar orecchio alle loro proposte; sembra tuttavia che le idee dei Del Pozzo trovino solo il consenso dei tre valenzani (un chiaro istinto suicida), poiché certi pensieri di questi tempi è meglio non farseli venire proprio.
Il piano predisposto prevede che il giorno stabilito il Bombelli/o, il figlio Franceschino (giureconsulto, dottore in legge) e Pieruccio Aribaldo/i si attivino ad istigare la popolazione valenzana a ribellarsi contro la signoria del Marchese di Monferrato, e quindi a spalancare le porte della città alle soldataglie dei Visconti. Ciò viene in parte realizzato, ma all’apparire delle truppe nemiche la roccaforte valenzana invece di consegnarsi al nemico dà mano alle armi e agli aggressori (più di 2.000) non rimane che ritirarsi. E così, suonano le campane a festa per il pericolo scampato: la vita della comunità valenzana è regolata da questi suoni che, oltre l’ora, annunciano le emergenze, le feste, le riunioni pubbliche e i funerali.
I traditori cercano la salvezza con la fuga, ma sono però arrestati dalle milizie monferrine e imprigionati ad Asti. Il processo nei loro confronti, sotto la guida dal temibile magistratoAlbertino De Gustonibus (vicario del Marchese di Monferrato), dura parecchie settimane e si conclude con la pena di morte per decapitazione (dura lex sed lex). Condanna che è eseguita nell’anno 1360. Mentre gli ispiratori del piano Giovanni e Simone Del Pozzo, per sottrarsi alla cattura, cercano protezione sotto l’autorevole ordine religioso degli “Umiliati” di cui Simone è un eminente rappresentante, scoprendosi predicatori e teologi di se stessi. I Visconti strapperanno la città a viva forza, con un terribile assedio durato 10 mesi, nel 1370.
Una manovra ed un tradimento nefasto che paiono disgustosi, dirlo sembra persino banale, ma le cose andarono veramente così? Questo abbiamo trovato, ma dove termina la realtà e dove comincia una certa immaginazione?