“Volevo nascondermi”: l’insostenibile bellezza della fragilità
Giorgi Diritti restituisce la parabola esistenziale di Antonio Ligabue. Straordinaria la performance di Elio Germano
CINEMA – Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore. (Epitaffio sulla tomba di Antonio Ligabue)
«Volevo ringraziare tutte le persone che hanno contribuito a questo film, che è stato molto faticoso…Quindi tutte le persone coinvolte in questo lavoro, da Giorgio Diritti ai produttori e ai volontari, che ci hanno aiutato molto. Lo voglio dedicare, questo premio, a tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta e ad Antonio Ligabue e alla grande lezione che ci ha dato, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane. Lui diceva sempre “Un giorno faranno un film su di me”, ed eccoci qui!». È entusiasta, Elio Germano, dopo aver ricevuto l’Orso d’Argento alla Berlinale 2020 per la sua mirabile interpretazione dell’artista “folle” Antonio Ligabue nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi. Mette in luce, non a caso, la tematica cardine di quest’opera cinematografica, più concentrata (e non è, necessariamente, un errore, come vorrebbero alcuni critici) sulla rappresentazione della diversità – fisica, dello spirito, del pensiero – e dell’emarginazione come circostanze del vivere piuttosto che sull’esplorazione profonda del genio artistico.
Volevo nascondermi inizia, emblematicamente, con l’immagine del corpo di Liguabue – “El Tudesc”, come veniva chiamato – rannicchiato sotto una coperta in manicomio, spaventato e solo, come quell’umanità dolente, bistrattata, che lui incarna.
Diritti restituisce la parabola esistenziale di questo pittore e scultore dall’animo diviso, dal segno grafico controverso, come in una sorta di beffarda via crucis: l’infanzia disordinata e raminga vissuta tra Svizzera e Italia, bambino rachitico e affetto da gozzo, nato nel 1899 da un’emigrante italiana di origini bellunesi che morì troppo presto, lasciandolo in balia del padre putativo Bonfiglio Laccabue prima e poi della famiglia adottiva di svizzeri tedeschi che lo accolse.
E ancora, il disadattamento di Antonio, frutto non solo di una sua atavica predisposizione, di quella “follia” con cui venne senza possibilità d’appello etichettato, ma anche dei continui spostamenti del suo nucleo familiare, in precarie condizioni economiche e sociali; il passaggio da scuola a scuola, il primo ricovero in ospedale psichiatrico, l’espulsione dalla Svizzera e il ritorno nei luoghi paterni, a Gualtieri, in una bassa emiliana dove i dialetti e i contorni si mescolano e dove “El Tudesc” inizia a trasformare le sue paure e ossessioni (il contatto fisico, ad esempio) in bestiari minacciosi, in autoritratti colmi d’inquietudine.
Diritti, da sempre impegnato a ricostruire con i mezzi che il cinema offre la presenza dell’uomo nella Storia, i suoi linguaggi ed espressioni (vedi Il vento fa il suo giro e, ancor più, L’uomo che verrà), utilizza in maniera efficace, limpida ed elegante la tecnica del flashback, l’illuminazione che ombreggia e sfuma i marroni e gli ocra della bassa Padana, le scenografie di Ludovica Ferrario che esaltano la matericità degli interni così come degli ambienti naturali (i boschi, il fiume).
La scelta delle figure di contorno che ruotano nell’orbita di Ligabue, volti di persone comuni, estremamente realistici nella loro immediatezza contadina, è azzeccata (non dimentichiamo che Diritti è stato uno degli allievi di Ermanno Olmi alla scuola di Ipotesi Cinema).
Straordinaria è la performance di Elio Germano, forse la più bella e poetica dopo quella di Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone (2014) e del disperato Claudio nel precedente La nostra vita di Daniele Luchetti (2010), che gli fruttò a Cannes il premio per la miglior interpretazione maschile.
Non sopraffatto dal trucco mimetico ad opera di Lorenzo Tamburini (David di Donatello per Dogman), Germano assimila al suo corpo d’attore il corpo impregnato di sofferenza dell’artista, le sue rabbie, i timidi innamoramenti, sino all’annullamento delle reciproche identità.
Molto evocativa anche la colonna sonora di Daniele Furlati (storico collaboratore musicale del regista) e Massimo Biscarini, capace di evocare in chi guarda e ascolta i fantasmi spaventosi che agitano il cuore di Ligabue, umano fra gli umani, come ha ricordato Elio Germano durante la cerimonia di premiazione: «Lo sforzo che facciamo tutti nella vita è quello di piacere agli altri. Siamo condizionati da ciò che vogliamo sembrare e ci perdiamo in qualche modo la vita. Le persone più fragili ed esposte ci danno una grande lezione di libertà, Ligabue era deriso da tutti, ma siamo qui a parlare di lui, non delle persone ricche e famose. L’umanità sta nei fragili, la ricchezza e la sete di competizione non sono umane».
Volevo nascondermi
Regia: Giorgio Diritti
Origine: Italia, 2020, 120’
Cast: Elio Germano, Oliver Ewy, Paola Lavini, Gianni Fantoni, Duilio Pizzocchi, Pietro Traldi, Leonardo Carrozzo, Orietta Notari
Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Tania Pedroni, Fredo Valla
Fotografia: Matteo Cocco
Musiche: Marco Biscarini
Suono: Carlo Missidenti
Produzione: Carlo Degli Esposti, Nicola Serra per Palomar e Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution