Face to face: assenza di comunicazione, il grande buio del carcere
Il detenuto Preng mette sotto accusa il comportamento di educatori e magistrati
FACE TO FACE – Il detenuto Preng mette sotto accusa il sistema carcerario e il comportamento dei rappresentanti delle istituzioni. Nella sua testimonianza, chi si trova in una casa di reclusione è completamente abbandonato, senza possibilità di comunicare realmente con qualcuno che lo possa aiutare.
TUTTI I RACCONTI – La raccolta del progetto Face to Face
Illusione di parole e di scritto
Mi chiamo Preng e sono di origine albanese.
Mi ritengo fortunato di partecipare al corso e al progetto “Artiviamoci”. Nella mia sfortunata esperienza carceraria, ho partecipato anche ad altri corsi e progetti, dove una delle frasi che ho espresso, è stata anche come un tema negli incontri con le istituzioni di cultura e dello stato, la quale era: “L’arte non si reclude”.
Lavorando e parlando con il nostro stimato prof. Massimo, che ci ha chiesto degli scritti da presentare per il suo progetto, mi sono tuffato in un mare senza fine di dolore, di realtà, d’illusione e di parole, senza trovare neanche il perché un essere umano può trovarsi senza un’identità.
Recentemente la mia attenzione è stata risvegliata dal concetto del valore della parola, come strumento per ricomporre fratture e conflitti. Immagine bellissima, quasi commovente, che ci ricorda come dovrebbe avvenire la comunicazione tra esseri umani.
Ricordo perfettamente i miei tanti docenti nei lunghi anni della mia scolarizzazione, che mi hanno insegnato, con passione, a capire e a usare il linguaggio. Insegnamenti preziosi che mi hanno consentito di costruire il rapporto tra me e gli altri. Le parole mi hanno permesso di lavorare, amare e di interagire con gli ambiti nei quali mi sono trovato.
Ricordo con emozione che, quando mia figlia ha iniziato a parlare, è stato, senza dubbio, uno dei momenti più intensi
della mia vita d’amore con la parola.
In questo momento mi sento come un amante abbandonato dalle parole, che sono un modo sintetico per riassumere tutto un mondo di contenuti e di valori. Parola, infatti, per me è conoscenza, comprensione, l’agorà del sociale, strumento per tessere progetti, condivisione, relazione con il prossimo e molto altro.
Ora, tutto questo non c’è più, sparito, volato via. In carcere di parole ce ne sono poche e, se ne usano ancora meno.
Spesso sento lingue e dialetti diversi, che sono difficili da capire, percepisco sensazioni a me sconosciute, vivo nella paura di essere frainteso, strumentalizzato, e, devo per forza ricordare, che ogni cosa che dico, potrà essere usata contro di me.
La parola da alleata si è trasformata in una spada di Damocle. Con i compagni la comunicazione è minima, non capisco i dialetti e mi sento estraneo al mondo in cui vivo.
Oltre a questo, avverto un clima di ostilità, di paura, d’individualismo e di egoismo, che sicuramente non agevola l’integrazione. Di solidarietà, di condivisione e di collegialità, neanche l’ombra.
Con le istituzioni forse è ancora peggio, gli educatori sostanzialmente non prendono nessuna responsabilità, ti tengono con le caramelle, come il bambino che si accontenta di niente.
Anche quando si effettua qualche colloquio, con loro, si evince con assoluta chiarezza che non credono ad una parola di ciò che diciamo, ed è altrettanto palese che non vogliono o non possono, o tutte e due, dirci quello che pensano.
La finzione è palpabile e, conseguentemente, la chiusura reciproca e l’erezione di barriere insormontabili, sono inevitabili.
Gli altri operatori, come i magistrati e i direttori, per una serie consistente di motivi, non possono e non vogliono rispettare le leggi e, di fatto, ostacolano sistematicamente il nostro difficile percorso.
Le parole tra i detenuti e tutte le figure di riferimento dello stato semplicemente non ci sono.
Sulla carta dovrebbero accompagnarci nel nostro doloroso e difficile cammino, ma nella realtà, oltre a lasciarci soli, tentano di sabotare i nostri tentativi di crescita etica e morale.
In questo deserto di parole, che è il carcere, si avverte un senso di solitudine, come in nessun’altra terra dell’Europa, si potrebbe mai provare.
È un mondo senza anima, senza umanità, senza pensiero, senza parole e, senza la possibilità di percorrere altri sentieri. È molto amaro conoscere il tesoro racchiuso nella parola e non poterne fruire, come per l’assetato vedere l’acqua e non poterla raggiungere.
Riflettendo sulle parole e sulla realtà dei giorni d’oggi, della mia vita da detenuto, mi pongo anche la domanda: “chi sono?”, ma veramente sono solo un numero di matricola come tutti dicono in questo luogo?
Il tempo fermo e la vita che se ne va, senza sentire le emozioni più importanti della vita stessa, e di nuovo mi domando: “Chi veramente sono?”e “Chi ero?”.
Ricordo che ero uno che lavorava, ero uno che pagava le tasse, pagavo l’affitto di casa, ero uno che pagava la luce, il gas, il condominio, pagavo l’assicurazione della macchina, avevo un visto lavorativo che scadeva nel 2012, avevo un passaporto, avevo un codice fiscale, avevo una carta d’identità, avevo una patente di guida!
Oggi non ho la patente di guida, il passaporto è scaduto, non parliamo del visto lavorativo!
La carta d’identità l’hanno presa i carabinieri quando mi hanno arrestato?
Almeno così mi hanno detto!
Ho perso il lavoro, ho perso la fidanzata, ho perso i documenti, ho perso i colloqui con i miei famigliari, ho perso la cosa più importante: la crescita di mia figlia, ho perso la dignità, praticamente ho perso tutto.
Tutto questo, a mio modo di vedere, per una giustizia non giusta.
Spero di non perdere la salute e la lucidità. Mi sembra di vivere in un terzo mondo, dove la giustizia non tende a un recupero dell’umano, ma alla sua distruzione.
Mi sembra di essere perduto in tutto e in tutti i sensi, ho perso tutto e non so più chi sono e, quando uscirò da questo posto, chi sarò?
Vorrei tanto domandare al giornalista famoso di “striscia la notizia”: “Chi è più importante un detenuto recuperabile o un cane randagio?”, “ che non capisco il paragone dal suo punto di vista” e, mi piacerebbe che sentisse questa voce e, vorrei vedere, se si svegliasse qualche rimorso nella sua coscienza.
Penso di avere scritto poco, ma spero di avere toccato quei fili sensibili, in modo che in ogni mamma, sorella, padre o fratello, possa risvegliarsi un minimo di emozione, nei confronti di una persona recuperabile e, prima di ringraziare quelli che mi hanno dato la possibilità di rivolgermi a una parte della società, vorrei chiedere a voi, società, conduttori di progetti, professori, scrittori, giudici, avvocati, lavoratori ed altri: “Chi siamo per voi?”.
Ringrazio l’istituzione penitenziaria di San Michele, di avermi dato la possibilità di partecipare a questo progetto e in particolare, l’educatrice di riferimento e i professori: Massimo, Valentina e Piero.
Con speranza e affetto
Preng
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