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    Cultura
    3 Settembre 2019
    ore
    09:01 Logo Newsguard
    Vite in cella

    Face to face: amara parabola, dai grigi al carcere

    A 14 anni selezionato per le giovanili ma la madre lo manda a lavorare. Ribellismo e illegalità

    Questa è la storia di un ragazzo che a 14 anni può entrare nelle giovanili dei grigi ma la madre non vuole e lo manda a lavorare. Sfruttato, si ribella e cade nell’illegalità.

    TUTTI I RACCONTI – La raccolta del progetto Face to Face

    Marietto

    Avevo quattordici anni e mezzo, ero bravo a giocare al pallone, ero molto veloce ed ero ambidestro, il mio ruolo era ala sinistra.
    Giocavo in una squadra che si chiamava “Lagaccio” ed un giorno da Genova, fummo invitati ad Alessandria allo stadio Moccagatta, a disputare una partita contro la squadra dei giovani calciatori alessandrini.
    La partita si svolgeva prima di quella, dove avrebbe giocato la squadra ufficiale, che all’epoca era in serie B e per ciò lo stadio era gremito di pubblico. In tribuna sapevamo che a guardare la partita, c’era anche il grande Rivera. Eravamo emozionatissimi!
    Giocammo la nostra partita e misi in rete un paio di palle. Vincemmo.

    Subito dopo il nostro allenatore fu convocato e gli venne proposto di lasciare me ed un altro calciatore ad allenarci e giocare con i giovani dell’Alessandria. Quando conobbi la proposta, ne fui entusiasta, non vedevo l’ora di potere iniziare la mia carriera
    calcistica.Tornati a Genova, l’allenatore si recò dai miei genitori a portare la proposta.
    Mia madre, con mio grande dispiacere, non volle accettare. In quel momento arrivai a odiarla. Per me aveva altri progetti. Avrei dovuto andare a lavorare a Bogliasco, come apprendista barista in un locale molto rinomato.
    Dovetti rinunciare al mio sogno e subito, iniziai il nuovo lavoro.

    In breve tempo diventai molto bravo, come in tutte le cose, quando debbo fare qualcosa, lo faccio al meglio delle mie possibilità e fui molto apprezzato dal titolare.
    Il locale era sempre pieno, si lavorava tantissimo, molte più ore di quanto il contratto prevedesse.
    Durante i fine settimana, il locale era strapieno e, per fronteggiare tale mole di lavoro, il titolare assumeva per quei giorni altro personale.
    Uno di questi lavoratori a tempo determinato, era uno studente militante nei gruppi parlamentari di estrema sinistra, mi pare fosse di Autonomia Operaia. Fu lui a farmi notare quanto venissi sfruttato e come la mia paga di apprendista non fosse sufficiente per tutto il lavoro che svolgevo.
    Lavoravo per due persone e venivo pagato per meno di una. Decisi di farmi le mie ragioni, mi recai dal titolare, gli feci notare la situazione e chiesi per lo meno un aumento.
    Lui mi rispose che sicuramente il prossimo mese avrebbe provveduto.

    Passarono tre mesi ma la mia paga non aumentava e una sera, con il locale affollato, andai dal titolare e, gli dissi che me ne sarei andato in quel momento. Di fronte alla mia determinazione lui ebbe una crisi di nervi e si mise a piangere, pregandomi di non abbandonarlo così su due piedi e che il mese prossimo mi avrebbe finalmente aumentato lo stipendio.
    Volli credergli ancora una volta e rimasi.
    Il mese dopo la paga era sempre la stessa e quindi decisi di provvedere altrimenti.
    Siccome tutto l’incasso, per evadere il fisco, non veniva mai dichiarato, noi del personale avevamo delle ricevute da rilasciare al cliente, divise in due parti, quella compilata per il cliente con l’importo esatto della spesa e, la matrice, quella che restava a noi, con un importo inferiore, quello da dichiarare per il fisco.
    Decisi quindi, ogni tanto, di prendere la differenza e mettermela in tasca, arrivando così finalmente ad incassare il secondo stipendio e a pareggiare i conti.

    Rimasi a lavorare nel locale per un anno e mezzo, riuscendo in questo modo a farmi un bel gruzzoletto.
    Il titolare non se ne accorse mai, ma all’età di sedici anni me ne andai e me ne andai anche di casa.
    I miei genitori non vollero accettare che io mi fossi licenziato senza neanche un preavviso, pensavano che io avevo fatto fare loro una brutta figura ,litigammo e prima di uscire dissi loro: “Adesso me ne vado e mi vado a prendere quello che hanno tolto a voi in trent’anni!”
    Vivevo in casa di amici e iniziai a frequentare un bar gestito da una donna bellissima, tutti gli avventori ne erano innamorati, nel bar si giocava a boccette e si facevano scommesse sui giocatori. Io ero molto bravo e spesso giocavo al posto di altri, in gergo si
    dice “traversare” che scommettevano su di me, così mi procuravo da vivere.
    Tra gli avventori c’era il sig. Spinelli, che aveva una ditta di spedizioni al porto e, vedendo che non lavoravo, mi propose di lavorare per lui. Andammo al porto e mi mostrò quella che avrebbe dovuto essere la mia mansione, cioè controllare i timbri sui grandi tronchi di albero che venivano scaricati dalle navi, mi avrebbe fornito di un motorino ed io avrei dovuto andare alle diverse calate ogni qualvolta c’era uno scarico.

    Il lavoro mi sarebbe molto piaciuto perché mio padre lavorava al porto e quando da bambino mi ci portava, per me era sempre una festa vedere quelle persone allegre, sempre con la battuta pronta e con il sorriso sulle labbra.
    Lo ringrazia e accettai di buon grado.
    Per fare il contratto, occorreva il libretto di lavoro, che io non possedevo, perché avrei dovuto essere maggiorenne, ma io non avevo che sedici anni e qualche mese. Avrei dovuto aspettare ancora un anno e mezzo e quel lavoro sarebbe stato mio.

    Anche quest’occasione, l’ultima, andò in fumo, di lì a qualche mese iniziai a fare dei furti nei supermercati, nei cinema, nei depositi e, procurate le armi a diciassette anni e mezzo iniziai a rapinare le banche.
    Ora, dopo tanti anni, sentendo la nostalgia per Alessandria, sono tornato, non allo stadio Moccagatta, ma ad alloggiare nel carcere di San Michele, i miei strumenti non sono più il pallone e neppure le armi, ma i pennelli, la tela e i colori.

    PUNTATA 15

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