Natale nel segno del cinema giallo-thriller italiano
Intervista a Claudio Bartolini, critico cinematografico e autore de Il cinema giallo-thriller italiano, il primo tentativo di catalogazione del genere che affonda le proprie radici nel feuilleton sociale spesso ispirato da autentici casi di cronaca nera
Intervista a Claudio Bartolini, critico cinematografico e autore de Il cinema giallo-thriller italiano, il primo tentativo di catalogazione del genere che affonda le proprie radici nel feuilleton sociale spesso ispirato da autentici casi di cronaca nera
Che cosa ti ha spinto alla scrittura di questo libro?
Innanzitutto la mia viscerale passione per il giallo-thriller italiano, ragione anche delle mie precedenti monografie sul cinema gotico di Pupi Avati e su quello (mi)sconosciuto di Armando Crispino. Poi lo stimolo di Enrico Giacovelli, curatore delle collane di cinema di Gremese Editore, il quale desiderava da tempo inserire in catalogo un’enciclopedia che facesse il punto definitivo su quel genere. Inizialmente l’opera doveva includere anche la produzione televisiva, poi – per ragioni di ingombri e costi – si è optato per il solo cinema, inserendo solo le opere tv di quegli autori che hanno girato almeno un film per le sale. Infine, a dare la spinta definitiva ci hanno pensato Ilaria Floreano, moglie e collaboratrice diretta per le collane di cinema targate Bietti Edizioni (che con lei dirigo da anni), e i titolari di Bloodbuster, negozio milanese di cinema di genere: loro mi hanno ribadito quanto l’editoria italiana avesse bisogno di un tomo su un genere così amato e così trascurato in sede bibliografica.
In quali radici letterarie affonda il cinema giallo-thriller italiano?
“I gialli Mondadori”, innanzitutto, ossia quella letteratura popolare che ha sdoganato i classici (Agatha Christie, Edgar Wallace ecc.), portandoli in Italia a basso prezzo, e ha connotato il genere degli assassini con quel colore – giallo, appunto – che lo ha reso immediatamente sfruttabile dal cinema. Altre radici letterarie non ce ne sono, piuttosto si può parlare di radici cinematografiche, soprattutto per i gialli e thriller italiani anni 60’ e primi 70’: su tutte, le opere di Clouzot, Chabrol, Polanski e Hitchcock, davvero saccheggiate dai nostri sceneggiatori.
A quale pellicola, in particolare, possiamo far risalire la nascita del genere?
Il giallo ha inizio con La ragazza che sapeva troppo del 1963, il thriller con Sei donne per l’assassino del 1964. Lì c’è già tutto. Entrambi i titoli sono firmati da quel genio e precursore che era Mario Bava.
Mario Bava e Dario Argento, come tu ricostruisci nel tuo libro, hanno rappresentato con i loro film dei veri e propri spartiacque: perché?
Bava, come detto, era un genio, un autore di generi, un inventore di trucchi visivi e di storie popolari. Non a caso ha coniato anche il gotico nel 1960 con La maschera del demonio e lo slasher – filone del thriller – nel 1971 con Ecologia del delitto. Argento è spartiacque perché trasforma il thriller di Bava alla Sei donne per l’assassino in una moda, rendendolo da scheggia episodica nella produzione nostrana a genere di punta a inizio anni 70’. Non a caso, dopo L’uccello dalle piume di cristallo fioriscono thriller con animali nei titoli, guanti neri e impermeabili addosso ai killer, contesti urbani e soggettive.
Come si è evoluto il genere a partire dalla metà degli anni 70 in poi, cioè dal momento di massima crisi?
Ha cercato vie d’autore, spesso trovandole e altrettanto spesso mancandole. A fine anni 70 escono tanti grandi thriller, da La casa dalle finestre che ridono a Sette note in nero, ma il genere non è più sistema, non ha più un’industria a supportarlo. Gli anni 80 sono quelli della crisi, con Vanzina (Mystère, Sotto il vestito niente) a portare la bandiera e pochi intorno a lui a reggerla. Nei 90 le tv hanno già ucciso i generi, dunque si inizia a essere nelle mani dei singoli registi. Nel terzo millennio, per paradosso, sono in tanti a recuperare il giallo. Tanti big in cerca di idee per drammaturgie altre, ma legate in qualche modo al giallo-thriller. Pensiamo, per esempio, a Tornatore (La sconosciuta, La migliore offerta), Salvatore (Quo vadis, Baby?), persino a Virzì (Il capitale umano)…
Da appassionato, quale pellicole appartenenti al genere sono le tue preferite?
Ne dico cinque, potrebbero essere cinquanta: La donna del lago, Lo strano vizio della signora Wardh, Sette note in nero, Tenebre, Sotto il vestito niente. Aggiungo anche Macchie solari, un capolavoro, e La casa dalle finestre che ridono. Ok, mi fermo.
Perché ci piace tanto avere paura, immersi nella lettura di un romanzo oppure sul grande schermo?
Posso rispondere per il sottoscritto. In generale non mi piace avere paura, ma mi piace sfidare l’autore a farmela provare. Provo paura di rado, al cinema, ma quando succede l’emozione non ha eguali proprio per questa sua rarità. E l’autore mi conquista per sempre. Negli ultimi anni è capitato con i film di Mike Flanagan e con il primo The Strangers.
Quali sono i meccanismi narrativi della paura?
Cambiano a seconda dell’epoca. Oggi, a mio avviso, narrativamente la paura è tornata una questione domestica. L’insicurezza, i mutui, l’aumento della criminalità e della violenza home invasion hanno reso di nuovo la casa un territorio fertile per coltivare scenari di terrore razionale, più che soprannaturale. Oggi, più che il bosco o il castello, fa paura casa propria. Ed è drammatico.