‘Poca cultura del vino, nel Paese del vino’
Produttori a confronto sul mercato e sul futuro dell'Alessandrino, territorio di esportazioni, ma anche di profonde contraddizioni. La forza del terroir e il 'nanismo' imprenditoriale
Produttori a confronto sul mercato e sul futuro dell'Alessandrino, territorio di esportazioni, ma anche di profonde contraddizioni. La forza del terroir e il 'nanismo' imprenditoriale
La riflessione, diretta e senza peli sulla lingua, arriva da Carlo Volpi delle Cantine Volpi di Tortona. Valutazioni condivise da Stefano Daffonchio di Terralba Vini di Berzano di Tortona, da Stefano Ricagno dell’acquese Cuvage e dal tecnico Valerio Scarrone di Coldiretti. La forza del vino italiano è nel terroir, in quel territorio “che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri e che è entrato, da decenni, nell’immaginario degli stranieri che lo vogliono trovare e scoprire quando arrivano in Italia”. I numeri dell’economia danno ragione a Carlo Volpi. I volumi delle esportazioni sono in crescita, mentre chi ha saputo affiancare alla produzione di vino di qualità anche una accoglienza all’altezza delle attese sta vedendo crescere il business. Una recente indagine dell’ufficio studi di IntesaSanpaolo indica il Piemonte come la seconda regione in Italia per export di bevande. Il distretto dei vini delle Langhe, Roero e Monferrato è il primo tra i distretti vitivinicoli monitorati da IntesaSanpaolo per crescita in valore assoluto tra 2015 e 2008. Performance di export di assoluto rilievo per la provincia di Alessandria, il cui comparto delle bevande (tutte, non solo il vino) è cresciuto del 76 per cento dal 2007 al 2015 (55 per cento in Italia, 31 per cento in Piemonte) pari a 74 milioni di euro in più. Un andamento positivo, confermato nei primi nove mesi del 2016 (+10 per cento), dopo il calo delle esportazioni nel 2015, grazie all’apporto dei principali sbocchi commerciali, in particolare la Germania con un aumento di otto milioni di euro e il consolidamento della domanda francese con 1,4 milioni, mentre è di quasi un milione di euro l’incremento in Inghilterra.
Ma è sul territorio che si gioca la sfida primaria, nel nome della qualità, dell’identità e della salute. Non a caso il vino biologico è diventato il valore aggiunto per la conquista di nuovi mercati. L’Italia è al secondo posto, dopo la Spagna, come superficie vitata ‘bio’, mentre sempre più aziende stanno riconvertendo i terreni. “Le Cantine Volpi (l’azienda è associata a Confindustria Alessandria, ndr) hanno investito nel biologico dalla fine degli anni Novanta e oggi la produzione diretta biologica si sviluppa su dieci ettari, mentre sono circa trecento gli ettari bio da cui acquistiamo le uve che trasformiamo nei vini che rappresentano l’intero territorio del Tortonese” sottolinea Carlo Volpi. Innovazione di processi e revisione del posizionamento di mercato hanno favorito la crescita di produzioni, come quelle di bollicine, giudicate residuali negli anni scorsi, e che vedono nella Cuvage una delle espressioni più efficaci. Certo, l’ultima cosa da fare è stare fermi. Lo spiega bene Stefano Daffonchio che con la Terralba (venticinque ettari) prima ha tentato la strada della promozione con la partecipazione a diverse fiere internazionali, ma ottenendo in cambio dei “risultati pessimi”, poi ha abbandonato il canale della grande distribuzione (anche per un problema di volumi produttivi) e ha deciso di muoversi “con la valigia in mano” puntando su ristorazione, enoteche e wine bar. “La gente ti vuole conoscere, guardare in faccia, ascoltare la tua storia e oggi, per esempio, a New York abbiamo uno dei mercati più importanti” aggiunge Daffonchio.
Volpi, Daffonchio, Ricagno insieme a Scarrone che racconta l’esperienza di tre altre aziende della provincia – Castello di Tagliolo, Accornero di Vignale e Picollo di Gavi – hanno un comune denominatore: la critica alla sistematica scomparsa di aree vitate. “L’abbandono sta proseguendo e anche la cessione dei diritti di reimpianto – dicono – ha determinato un ulteriore impoverimento”. Il fenomeno della cessione però ha interessato, in diversi casi, aree vitate non più in produzione, appezzamenti condotti più per hobby che con spirito imprenditoriali, aziende individuali il cui titolare ha preferito cedere per riconvertire il terreno, magari a nocciole. Il diradamento, in realtà, è una pratica che alcuni hanno praticato anche per rispettare i parametri molto rigidi dei disciplinari di produzione.
Se mai, oltre alla riduzione della superficie vitata, c’è un altro aspetto del tessuto imprenditoriale che condiziona lo sviluppo: la dimensione media. Il nanismo aziendale è uno degli elementi di maggiore freno e che si limita le economia di scala che invece altre regioni si possono permettere. Non per niente larga parte dei diritti di reimpianto sono stati acquistati dal Veneto.